Quanti le hanno conosciute o anche soltanto posto attenzione alla loro tragedia, sono stati sempre colpiti, tra molto altro, dalla spontanea intelligenza politica delle Madri della Plaza de Mayo; così come anche da quella delle Nonne: dall’irrevocabile impegno di volontà e di comprensione delle centinaia di donne scese in strada alla ricerca di figli e nipoti fatti scomparire dalla dittatura militare argentina (1976-1983). C’è una nobiltà riconosciuta naturalmente dal genere umano nelle viscere che ci donano la vita. A cui la storia aggiunge la constatazione che i grandi sommovimenti sociali, sempre accompagnati dal sollevarsi della violenza estrema, hanno puntualmente risvegliato il più ampio e coraggioso protagonismo femminile. Prova ulteriore (e nient’affatto secondaria) che la sua presunta subalternità sociale è soltanto il portato di uno schema gerarchico prestabilito.
A questo ritratto di donna, Angela Catalina Paolin in Boitano, per tutti Lita, nata nel 1931 a Buenos Aires da immigrati veneti, di suo ha aggiunto un sorriso indimenticabile per quanti l’hanno conosciuta: autentico, vibrante, generoso, segno di un intimo stato di grazia aperto all’altro da sè, a chiunque fosse disposto a condividere una gioiosa ricerca di fraternità. Un tratto distintivo che illuminava con la sua bella presenza anche i momenti più terribili d’una esistenza drammatica. E riappare, infatti, oggi che ci ha lasciati, nei ricordi più condivisi e visivamente testimoniato dalle innumerevoli foto che ne accompagnano le esequie. Lei lo spiegava cosi: ”A me sembra di esserci nata con questo mio sorriso. Dev’essere un desiderio mai appagato d’allegria, a cui non ho però mai rinunciato. Non ho potuto conoscere il mio padre biologico: è stato il primo desaparecido della mia vita. Ma non ho mai odiato nessuno, non porto rancori, non servono a niente, per cambiare la vita bisogna cercare di capirla…”.
Per riuscirci, Lita ha combattuto in difesa dei diritti umani prima ancora di conoscerne la codificazione internazionale. In piena dittatura, ha affrontato poliziotti e ufficiali dell’Esercito, per chiedere dei suoi figli e di quelli degli altri; distribuito volantini di denuncia dei desaparecidos tra gli spettatori dei Mondiali di calcio. Fino a diventare una dirigente attivissima e rispettata per iniziativa e audacia personale. Ed essere costretta all’esilio in Italia. Vedova a soli 37 anni, aveva vissuto per i due figli: Adriana e Miguel. La repressione glieli ha portati via entrambi, sequestrandoli per la strada. Prima il maschio, studente di architettura e militante della Gioventù Peronista; poi la femmina, anche lei universitaria a Lettere Moderne, afferrata a forza e spinta su un’autovettura senza targa, sotto gli occhi della madre. Qualche volta raccontava lo sgomento, il cuore fermo all’improvviso, l’incredulità che per un attimo trattiene la punta più aguzza del dolore nello stordimento… E la scomparsa del sorriso dal suo volto raggelava anche il respiro di chi ascoltava.