La morte di Satnam Singh: uno spiacevole inconveniente…

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Li definiscono “invisibili”. E individualmente senz’altro lo sono. Ma la questione della quale fanno parte è gigantesca, impossibile da nascondere, assolutamente vistosa quanto tragica.

Braccianti come Satnam Singh muoiono nei campi di questo Paese perché, come forza lavoro, sono l’anello più debole della catena del valore dell’agricoltura.

Si dice sia debole anche l’anello composto dalle aziende agricole, oppresse dal differenziale di prezzo tra la vendita all’ingrosso e quello al dettaglio, in particolare nella grande distribuzione. Ma, paradossalmente, i sussidi all’agricoltura rappresentano, attraverso la Pac – la Politica Agricola Comune – qualcosa come un terzo del bilancio dell’Unione Europea, circa la metà dei quali indirizzati direttamente alle aziende.

L’indicibile atto di barbarie e la perdita di un seppur minimo senso di umanità dimostrano in ogni loro raccapricciante dettaglio il disprezzo con il quale sono trattate decine di migliaia di braccianti agricoli, molti dei quali sfruttati brutalmente in nero perché immigrati mantenuti nella clandestinità da un Paese che non si decide a riconoscere l’utilità e il valore di questa forza lavoro. Lavoro che, nell’inverno demografico italiano, non ha alternative. Ben lontani sono i tempi nei quali un Giuseppe Di Vittorio nasceva “cafone” a Cerignola e veniva indirizzato al lavoro nei campi dei latifondisti a dieci anni d’età. Il mondo è cambiato. La condizione disperata di molti braccianti, purtroppo no. La differenza è che quelli di oggi devono vivere anche in clandestinità, con le conseguenze che abbiamo visto, ancora una volta, nel caso Singh.

Ma c’è dell’altro da mettere in evidenza, al di là del caporalato, delle condizioni disumane di lavoro, delle paghe vergognose. Perché a Satnam Singh sono stati strappati gli arti da una macchina. Il che non dovrebbe accadere. Torna così, subito, alla mente la tragedia di Luana D’Orazio, giovane operaia uccisa da un orditoio in un’azienda tessile, tutt’altro ambiente di lavoro, dunque. La morte di Luana D’Orazio avrebbe potuto essere evitata se solo si fosse adottato un congegno di sicurezza in grado di bloccare l’orditoio, le cui protezioni sono state, invece, disattivate per evitare interruzioni dell’attività della macchina e per velocizzare la produzione. Una delle domande alle quali dovrà rispondere l’inchiesta è perché Singh sia rimasto bloccato in un macchinario per avvolgere la plastica, la forte pressione del quale gli ha strappato un braccio e fratturato le gambe. Quella macchina era sicura o no? Era stata in qualche modo manomessa per accelerare la produttività o tutto era in regola?

Attraverso i bandi Isi, l’Inail distribuisce, ogni anno, molti milioni di euro in contributi a fondo perduto per realizzare progetti di prevenzione e acquistare macchinari aggiornati per favorire la tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. Finanziamenti che valgono per l’agricoltura come per tutti i settori produttivi.

Il punto non è produrre nuove norme, che esistono e sono adeguate. Questa vicenda ci insegna che senza una volontà diffusa di garantire la sicurezza e la dignità del lavoro continueremo a piangere tutti i Satnam Singh abbandonati all’arbitrio dello sfruttamento.

E, ancor di più, quello che colpisce è la totale mancanza di umanità, di indifferenza verso la persona prima ancora che verso il lavoratore; quella banalità del male che trasforma l’essere umano in oggetto di cui sbarazzarsi se rischia di alterare o rallentare il raggiungimento dei nostri obiettivi. In questo caso nel modo più eclatante e barbaro, altre volte in maniera più mascherata.

E ogni giorno si muore sul lavoro: l’altro ieri un diciottenne schiacciato da una seminatrice nel lodigiano; ieri, in un’azienda del mantovano, un trentacinquenne rimasto incastrato in un macchinario di laminazione.


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