Quando Luigi XIV alla fine del 1686 recuperò le forze dopo un’antipatica operazione chirurgica, un moto di gioia si diffuse per Parigi: da tutte le chiese provenivano inni di grazia. Il musicista di corte Jean-Baptiste Lully – il fiorentino battezzato al secolo Giambattista Lulli – pensò di allestire una cosa in grande e riprese a mano un Te deum in re maggiore che aveva composto dieci anni prima per il compleanno del re. I duecento esecutori dell’orchestra e coro dell’Accademia di Musica provarono per giorni e giorni e alla fine, l’8 gennaio 1687, il potente canto corale s’elevò dall’abside della chiesa dei Foglianti in rue Saint-Honoré, oggi scomparsa.
Tutta la Parigi che contava accorse, riempiendo la chiesa di entusiasmo per la grandeur del magnifico evento diretto da un Lully che, in abito di cerimonia, governava l’enorme complesso musicale battendo il tempo al suolo con un pesante bastone di metallo dal pomello riccamente decorato. La giornata fu però rovinata da un incidente: nel battere il tempo, Lully si colpì un dito del piede destro con la punta metallica dell’asta, ma nonostante il dolore portò il Te deum a conclusione e raggiunse poi la carrozza zoppicando.
Nei giorni seguenti si formò nel punto colpito un grosso livido, ma Lully – noto libertino – non ci fece caso e continuò a curare i propri affari e piaceri. Una sera tornò a casa alticcio, come spesso accadeva, e fu colto da una violenta febbre. Accorso a visitarlo, il medico personale dottor Alliot notò che il piede era già gonfio e rosso: si era insomma formato un grosso ascesso. Oggi, con gli antibiotici, la terapia iperbarica e la microchirugia, un grosso ascesso costituisce un problema medico controllabile, ma a fine Seicento era un guaio. La cancrena cominciò a diffondersi alla gamba e fu chiaro che il solo modo per salvare la vita al compositore era di amputargli mezzo piede. Sperando in una guarigione meno cruenta, o forse perché era stato anche un ballerino e non accettò di doversi far menomare, Lully rifiutò e stoicamente tollerò il dolore, che si fece sempre più insopportabile. La cancrena si diffuse e si rese ora necessaria l’amputazione della gamba.
Disperato, Lully si affidò a un ciarlatano che si faceva chiamare Marchese di Carrette e prometteva guarigioni miracolose grazie a un rimedio segreto di sua invenzione. Ricorda Henry Prunières ne La vie illustre et libertine de Jean-Baptiste Lully (Librairie Plon, 1929) che «l’empirico promise mari e monti, assicurò che era inutile amputare la gamba e che si sarebbe fatto carico lui di tutto. Invano il dottor Alliot consigliò Lully e sua moglie di guardarsi dall’avventuriero: non fu affatto ascoltato». L’infezione raggiunse il resto del corpo e il musicista, lucido ma febbricitante e madido di sudore, non riuscì più ad alzarsi. In quei giorni dettò al notaio Simon Mouffle il testamento e riuscì anche a comporre il canone a cinque voci sui versi Bisogna morire, peccatore, bisogna morire. Languì ancora per alcuni giorni, sopportando i tremendi dolori; fu convocato il curato della Madaleine che lo confessò e ottenne dal libertino un moto di conversione.
Morì la mattina del 22 marzo 1687 e fu celebrata alla Madaleine, con grande concorso di popolo, una messa da requiem. La sepoltura avvenne a corpo scalzo, come richiesto da Lully, nella chiesa dei Petits-Pères a Place des Victoires. La vedova volle poi erigere un grandioso cenotafio che lungo gli anni accolse anche lei e i figli. Il magnifico mausoleo fu trasferito dopo la Rivoluzione nel santuario agostiniano di Notre-Dame des Victoires.
Fu, quella di Lully, una delle morti più sciocche della storia della musica.