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Il volo che costringe a reinterpretare il senso di una vita

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Data l’affinità dell’indole e delle inclinazioni, era quasi scontato che l’incontro fra il saggista, traduttore e bibliofilo Antonio Castronuovo – autore fra le altre cose del recente, fortunato Dizionario del bibliomane (Sellerio 2022), che lo apparenta decisamente al personaggio oggetto della sua ultima fatica – e Angelo Fortunato Formìggini (1878-1938), editore e scrittore italiano di origine ebraica, fondatore dell’omonima casa editrice, servisse da stimolo per una pubblicazione di vivissimo interesse, che invita alla riscoperta di un grande ma dimenticato animatore della vita culturale del nostro Paese nel primo inquieto quarantennio del XX secolo: Formìggini. Vita umoristica (e tragica) di un editore del ‘900 (Pendragon 2024), denso quanto agile saggio che ripercorre in poco meno di duecento pagine una parabola umana, cordiale e funesta, emblematica di un’intera epoca.
Come suggerisce già il titolo, i due poli solo apparentemente opposti a cui è riconducibile la figura del protagonista sono, per il carattere del personaggio e le traversie oggettive della sua esperienza, l’umorismo e la tragedia, che si compenetrano pienamente nell’ultimo atto della sua travagliata vicenda terrena.
Castronuovo parte proprio dal fatale epilogo, alla cui luce siamo obbligati a riconsiderare retrospettivamente tutto: Formìggini (con l’accento sulla prima i), “un ebreo che si sentiva italiano al cento per cento e che aveva visto di buon occhio il nascente fascismo” fu probabilmente, nella quasi immediatezza della loro promulgazione, la prima vittima italiana delle leggi razziali – suicida forse presago dei più infausti sviluppi che fin dall’inizio esse implicavano. Nessun dubbio che il gesto estremo, lucidamente premeditato, di gettarsi nel vuoto dalla torre Ghirlandina di Modena nella mattina del 29 novembre 1938 rispecchiasse il suo sgomento – l’assoluta incredulità – per le vessazioni a cui era sottoposta un’intera comunità da secoli perfettamente integrata nel tessuto sociale italiano e costituisse un duro atto d’accusa contro un regime che abdicava ai suoi più elementari principi etici. Così, del resto, dovettero intenderlo le stesse gerarchie fasciste, se imposero alla stampa di ignorare il fatto, vietarono i necrologi, tentarono perfino – senza riuscirci – di far svolgere i funerali di notte, tanto più che indosso alla salma furono ritrovate diverse banconote da centomila lire (“somma favolosa per l’epoca”) certo a sottolineare come l’atto non fosse ascrivibile a dissesti finanziari, ma avesse motivazioni che chiunque in quei giorni avrebbe potuto intuire.
L’ignobile commento di Achille Starace, braccio destro del Duce, nell’apprendere la notizia, offre la misura del cinismo e della volgarità di un’intera classe dirigente: “È morto da vero ebreo: si è gettato da una torre per risparmiare un colpo di pistola.”
Come oggi sappiamo – e Castronuovo debitamente segnala – il suo è un caso di suicidio per protesta ideale – speculare, se vogliamo, e analogo nella dinamica, a quello del 26 aprile 1945 di Giovanni Preziosi, “prete spretato diventato uno dei maggiori teorici del razzismo fascista che si lancia assieme alla moglie dal quarto piano di un palazzo milanese per protestare contro il crollo della civiltà e il passaggio del testimone nelle mani di quella che considerava la cricca del male: giudei, bolscevichi, plutocrati e massoni.
L’autore del saggio ripercorre in poche intense pagine le tappe del razzismo italiano, a partire da quello coloniale, con tutto ciò che esso implicava anche in termini di segregazione – peraltro morbida – dei nativi, fino all’introduzione del madamato (nozze per mercede), ipocrita alternativa alla frequentazione dei bordelli da parte delle truppe occupanti.
Le leggi antisemite del 1938 presentavano aspetti altrettanto se non più odiosi: da un giorno all’altro non contava più nulla che tanti ebrei italiani fossero caduti per la Patria fin dal Risorgimento e nel primo conflitto mondiale; che ci fossero ancora molti ebrei fra gli invalidi e i mutilati della Grande Guerra; che quasi duecentocinquanta ebrei avessero partecipato alla conquista del potere da parte del fascismo nel 1922; che ebrea fosse Margherita Sarfatti, critica d’arte, collaboratrice, amante e biografa ufficiale del dittatore, costretta da un giorno all’altro a riparare all’estero (la sorella e il cognato moriranno ad Auschwitz). Si potrebbero citare senza difficoltà innumerevoli casi analoghi.
Al di là dello stereotipo ‘italiani brava gente’, di dubbia fondatezza, le nuove leggi, riflesso di una politica impostata su irrazionali cardini razziali, furono accolte con perplessità e disagio, quando non avversione, da una buona parte della popolazione italiana e degli stessi gerarchi (Galeazzo Ciano, Italo Balbo, Dino Grandi…). L’antisemitismo era tradizionalmente estraneo al nostro Paese. Il Vate in persona, dal suo splendido isolamento nel Vittoriale, esprimeva una strenua opposizione all’alleanza col “pagliaccio nibelungo”.
Le ripercussioni in ambito sociale furono dure e evidenti. “Nella babele delle leggi razziali rapporti umani e familiari si spezzarono e altri, paradossalmente, si annodarono.” Molti ebrei tentarono di sottrarsi a quelle prime persecuzioni “attraverso qualche maglia della normativa”, altri furono sospinti a forza – e di contraggenio – su posizioni politiche antifasciste, andando a ingrossare i ranghi dell’opposizione clandestina.
Per altri ebrei iniziò la caduta nello sgomento e nella disperazione, e Formiggini fu tra questi. E dire che vide solo la promulgazione delle leggi, non la loro evoluzione”.
Mussolini – annota Castronuovo – rimase molto impressionato dalla fine dell’editore: difficilmente poteva sfuggire a un uomo della sua intelligenza quanto di capzioso e proditorio fosse contenuto nella emanazione di quelle misure dissennate; era costretto a vederne già ora le prime concrete conseguenze.
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Il futuro editore era nato a Collegara (Mo), ultimo di cinque figli, da facoltosa famiglia ebraica originaria, appunto, di Formìgine, cittadina nella piana di Modena; i suoi antenati erano stati gioiellieri e finanzieri. Di indole estrosa e mordace, frequenta con ottimo profitto la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Modena, ricca di fermenti goliardici; studia moltissimo, ma “le sue notti trascorrono tra sberleffi e canti in dialetto modenese, alcuni dei quali composti da Formaggino da Modena, com’è abituato a firmarsi.” A causa del temperamento ribelle e irrequieto che lo porta a irridere finanche i professori a lui invisi, incorrerà più volte in sanzioni disciplinari. Significativo, quasi premonitore dei futuri eventi, il titolo della sua tesi di laurea, La donna nella Torah in raffronto con il Mânava-Dharma-Sâstra. Contributo storico-giuridico a un riavvicinamento tra la razza ariana e la semita, intesa a dimostrare come “ariani e semiti, in un passato molto remoto della preistoria, fossero uno stesso popolo, oppure, se ciò sembri troppo grave, due popoli aventi due virtualità evolutive identiche.”: in realtà, come avrebbe confessato molti anni più tardi nella Ficozza, un magnifico pesce d’aprile non smascherato, una tesi di diritto ariano e semitico frutto di mera invenzione, degna di quell’autore di burle e pasquinate che fu Formiggini lungo tutto l’arco della vita.
Nel 1902 matura un deciso ripensamento sulla carriera da intraprendere e, trasferitosi nella capitale, s’iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università La Sapienza; conseguirà una seconda laurea nel 1907 con una tesi dal titolo Filosofia del ridere. L’umorismo era all’epoca uno dei temi al centro del dibattito culturale: i saggi sul riso di Henri Bergson vengono raccolti in volume nel 1901; Benedetto Croce affronta la questione nel 1903; ed è del 1908 il fondamentale saggio di Pirandello. In questa temperie si muove del tutto a proprio agio l’ancor giovane Formiggini, che pensava essere l’umorismo “la massima manifestazione del pensiero filosofico”. Valore filosofico che “deriva da un’osservazione essenziale: l’umorismo si avvale a pieno titolo della riflessione, in modo da riuscire a percepire anche il contrario delle cose. La scintilla umoristica si accende insomma nella percezione della contraddizione”: “lo humour, più che uno stato d’animo, è una visione del mondo.” Motivi che del resto si ricollegano naturalmente all’altra sua cultura di riferimento, quella ebraica, e segnatamente hyddish (ashkenazita).
Formiggini aderisce in quel periodo a un’associazione studentesca (Corda Fratres), esempio di goliardia universitaria che nasce “come risposta al nazionalismo luttuoso, agli irredentismi, alle frustrazioni dei popoli oppressi…” nella quale vede bene incarnata la sua stessa concezione della vita.
Si accosta all’attività editoriale in modo abbastanza casuale, nel 1908, al tempo in cui era insegnante di liceo. L’inatteso successo di un’iniziativa estemporanea dovuta al suo carattere vulcanico in occasione della commemorazione della cruenta battaglia di Zappolino del 1325 induce il trentenne Formiggini a diventare da un giorno all’altro, senza averlo previsto, da semplice studioso editore: “un signore che si diverte a stampare libri belli” “incurante del guadagno”, a costante rischio quindi, come lo sarà per i trent’anni successivi, di dissipare la cospicua fortuna familiare.
Castronuovo ricostruisce, anche tramite gustosi aneddoti, le tappe della sua attività di editore dai vasti interessi, attestati dalla ricchezza del catalogo. Formiggini fu, in primo luogo, un uomo innamorato dei libri, un animatore culturale, un artigiano dell’editoria: tutto meno che un imprenditore accorto. “L’editoria non fu per lui un’impresa, ma una missione”, con tutte le disastrose conseguenze commerciali che derivano da questo strano modo di affrontare il mestiere; nonostante potesse vantare qualche singola collana di discreto e perdurante successo (ProfiliClassici del ridere), si ritrovò più volte a dover arginare le perdite con il generoso sacrificio del patrimonio personale. Il fatto è che per indole e per vocazione Formiggini dei soldi non sapeva dichiaratamente che farsene (“Faccio una vita da pitocco e figlioli non ne ho, tutto il mio lusso consiste nello stampare libri”), quindi reinvestiva subito i guadagni derivanti dalle rare iniziative felici in altre non di rado fallimentari.
In mezzo a tutto questo c’è l’intervallo drammatico del primo conflitto mondiale, per il quale parte volontario appena appresa la notizia della dichiarazione di guerra; congedato per malattia dopo meno di un anno, tornerà dall’esperienza più che mai risoluto ad affrontare con un giusto grado di ironia anche le più luttuose pagine della vita e della storia.
Castronuovo analizza puntualmente i pregi e i punti deboli (deboli soprattutto sotto il profilo commerciale) delle varie collane dell’emergente casa editrice: i Classici del ridere, probabilmente la sua collana di maggior successo; le Apologie, esposizione delle varie fedi nel mondo; la Aneddotica, molti dei cui titoli si possono leggere ancora oggi con rinnovato gusto.
Formiggini ebbe anche la felice intuizione di fondare la rivista ICS (L’Italia che scrive), periodico mensile di consultazione bibliografica corredato di un ricco apparato di note, recensioni e annunci inteso a favorire la promozione e diffusione (e quindi la lettura) del libro italiano, senza preclusioni verso nessun editore o autore. L’iniziativa riscosse negli anni un successo pressoché incontrastato.
Senonché i proventi che venivano dall’ICS andarono a costituire il capitale iniziale per la fondazione di un Istituto per la propaganda della cultura italiana, sul quale, nella persona del ministro della Pubblica Istruzione Giovanni Gentile, allungò presto le mani il nascente regime. Di un altro ambizioso progetto del Formiggini, la stesura di una grande enciclopedia italiana, si impossesserà, in un clima di crescente fascistizzazione, per divergenze programmatiche e con manovre non limpidissime, sempre Gentile: la monumentale realizzazione vedrà la luce più tardi come Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti (la cosiddetta Treccani), in 35 volumi.
Di fronte a queste reiterate sopraffazioni, la mordace ‘vendetta’ del Formiggini troverà forma nella pubblicazione (tardo 1923) del libro di memorie La ficozza filosofica del fascismo e la marcia sulla Leonardo, nella quale Gentile è descritto come “una tegola caduta sul capo del fascismo, o, per meglio dire, è la ficozza [la protuberanza, il bernoccolo]… prodotta dalla tegola”. Per la prima volta l’editore si è trovato a fare i conti con la tracotanza del regime; evidente resta, nello scritto, la volontà, abbastanza ingenua, di disgiungere le responsabilità di un suo indegno sottoposto da quelle del capo supremo. Eppure il libro è già, in un’“Italia castelvetrinizzata” (Gentile era nativo di Castelvetrano [TP]), uno dei primi sintomi di disagio dei circoli intellettuali; sopravvive, certo, solitaria, invitta, l’ammirazione per il Duce “in un empito in cui si condanna un movimento ma se ne assolve il leader.
Quando poi, quindici anni più tardi, le cose ormai manifestamente precipitavano e l’Italia cedeva alla “stolta favola del sangue”, Formiggini avrebbe scritto L’ultima ficozza, tardiva sconvolgente invettiva contro di ‘Lui’, il Duce in persona che aggredisce gratuitamente, spietatamente migliaia di cittadini innocui – “e tu lo sai che sono innocui”. Chiama Mussolini “ribaldo dal bieco destino” e teme di scoprire, dopo il volo dalla Ghirlandina, già progettato, che anche Dio è fascista. Nella sua ultima lettera, l’editore si accomiatava dalla vita e dal Duce: “Ti saluto con un grido terribile: Italia! Italia! Italia!
Formiggini non era mai stato ebreo osservante. Anche se le leggi razziali italiane non hanno – ancora – il rigore spietato di quelle tedesche, l’editore si ritrova in una situazione che gli appare senza via d’uscita; senza motivo, senza una colpa qualsiasi, perde in pochi giorni la libertà, l’azienda, pressoché tutto quello che per lui contava.
Nel punto in cui, su un lato del palazzo comunale di Modena, si concluse il tragico volo di Angelo Fortunato Formiggini, in quella livida mattina del 29 novembre 1938, sorge oggi una lapide che recita, in dialetto modenese, secondo le stesse volontà espresse dall’imminente suicida: Il tovagliolo di Formaggino. Non ‘sudario’ ma ‘tovagliolo’, sembrandogli quest’ultima “parola più allegra e simposiale, idonea a suggerire la limitatezza dello spazio che necessita alla morte per posarci nel nulla”.
Antonio Castronuovo ha saputo contemperare i vari elementi del libro – la vita di un uomo, l’attività di un editore d’ingegno che rischiava del proprio (categoria rara allora, oggi quasi estinta), la temperie culturale di un’intera epoca, i mutevoli rapporti con il regime – facendoli convergere organicamente in una narrazione insieme affabile e serrata.
Il saggio, che passa insensibilmente dai toni arguti, propizi tanto al Formiggini che al suo autore, ad accenti più commossi, si conclude là dove era cominciato, in piazza Grande a Modena, dove a fianco dell’abside del Duomo svetta la torre Ghirlandina; Castronuovo, cui va il merito di riproporre all’attenzione del pubblico un “personaggio da scoprire, lettera per lettera, foglio per foglio”, fra i maggiori animatori culturali nell’Italia della prima metà del Novecento, auspica che esso rimanga come “una traccia del suo spirito, un segno del suo umorismo, quel modo leggero di prendere la vita che può sorgere sotto ogni cielo, anche se vige una dittatura.

Antonio Castronuovo
Formíggini. Vita umoristica (e tragica) di un editore del ‘900
Pendragon, Bologna 2024.

Il volo che costringe a reinterpretare il senso di una vita


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