Abbiamo celebrato ieri, alla vigilia del voto europeo e a pochi mesi da quello americano, gli ottant’anni del D-Day, il giorno dello sbarco in Normandia delle truppe alleate, il colpo di grazia inferto al nazismo morente, l’episodio che ha cambiato in maniera definitiva le sorti del secondo conflitto mondiale. Basti pensare che senza quella carneficina, non avremmo assistito alla liberazione di Parigi, e chissà per quanto tempo ancora sarebbe andata avanti una guerra che i tedeschi avevano perso ma gli anglo-americani non erano ancora stati in grado di vincere. Doverosa, dunque, la memoria, al pari della presenza dei capi di stato e di governo e della passione politica e civile che ha caratterizzato l’evento. Sarebbe, tuttavia, opportuno guardare anche all’oggi. Perché le migliaia di vittime che persero la vita a vent’anni, sulla spiaggia di Omaha, non sono morte invano. O almeno così pensavamo e speravamo fino al giorno in cui la guerra non ha fatto nuovamente la sua comparsa nel Vecchio Continente, suscitando reazioni per lo più isteriche, soprattutto da parte di alcuni dei personaggi convenuti nella regione francese per celebrare l’anniversario, e ponendoci di fronte all’interrogativo se sia lecito condannare un’altra generazione, dopo quella di allora, a non avere di fatto vent’anni. Ce lo chiediamo alla luce delle parole che abbiamo ascoltato negli ultimi giorni, fra proposte di inviare le truppe NATO in Ucraina e ministri che sostengono senza pudore di doverci preparare a un conflitto con la Russia entro il 2029, evidentemente ignari del fatto che uno scenario del genere spalancherebbe le porte alla disfatta dell’umanità. Ce lo domandiamo perché abbiamo osservato gli sguardi dei reduci di quella mattanza, pluridecorati e ormai centenari, e ci siamo chiesti quale sia il loro pensiero di fronte al ripetersi di immagini che, a differenza nostra, loro hanno visto con i propri occhi. Spiace dirlo, ma quando al potere c’è una classe dirigente globale che non ha più alcun riferimento culturale e ideologico, e nemmeno le testimonianze in presa diretta dei superstiti dei diluvi della storia, salvo eccezioni ormai sempre più rare, la sensazione che si ha è che la guerra venga considerata una sorta di partita a Risiko, un videogame, un grande gioco nel quale alla fine, al massimo, si assiste a qualche schizzo di sangue, senza rendersi minimamente conto di quale livello di distruzione potrebbe comportare per gli equilibri globali un inferno nel cuore dell’Europa, ossia del continente tuttora più avanzato sul versante dei diritti umani e delle libertà civili.
Omaha Beach, ottant’anni dopo, ha assistito alla parata degli ultimi uomini in grado di raccontare al mondo cosa sia davvero una guerra mondiale e, al tempo stesso, alla sfilata ridicola di soggetti che in tanti, troppi casi non sanno quello che dicono e, meno che mai, quello che fanno.
Quando da bambini studiavamo lo sbarco in Normandia, avevamo la fortuna di avere ancora dei nonni che potevano raccontarci quei giorni. E non dimenticherò mai il nostro stupore collettivo quando qualche grande vecchio ci metteva in guardia sul fatto che quello scempio potesse ripetersi, anche se noi lo consideravamo, al massimo, un insieme di nozioni, un qualcosa che non avrebbe mai fatto parte della nostra vita, assumendo un’aria di sufficienza di fronte all’ammonimento relativo alla democrazia da difendere ogni giorno, mentre ora quelle lezioni riaffiorano alla mente in tutta la loro drammaticità. E ci rendiamo conto di quanto fosse significativo il regalo che ci stavano facendo quei maestri, spiegandoci che non bisogna mai dare per scontati determinati valori, primo fra tutti la pace, perché sono costati milioni di vite umane, anni di sofferenze indicibili e periodi di autentico tormento collettivo.
Noi che avevamo dieci anni quando il mondo pareva proiettarsi verso un futuro radioso e l’Europa stava per accogliere l’euro come moneta unica, noi che traevamo vantaggio dalla società multietnica senza ancora saperla teorizzare, noi che assistevamo a cambiamenti epocali, commettendo l’errore di considerarli normali e quasi dovuti, noi oggi, di fronte alla fiera dell’ipocrisia consumatasi in uno degli scenari più tragici che si ricordino, non abbiamo neanche le parole per esprimere la nostra indignazione. Ci limitiamo, dunque, ad affermare che, se siamo ridotti così, con un conflitto potenzialmente nucleare alle porte e un’Europa assente e incapace di produrre qualsivoglia azione diplomatica per scongiurare il peggio, significa che quei ragazzi di vent’anni, ahinoi, sono morti invano. E che i centenari che pure sono accorsi per rievocare quel giorno e ammonirci sui rischi che stiamo correndo non sono riusciti, con ogni evidenza, a far comprendere a una società che dà tutto per scontato che pace e democrazia non lo sono mai. Qualcuno sembra aver bisogno di un nuovo orrore per rendersi conto di cosa sia davvero una guerra, solo che potrebbe essere l’ultima.
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