Gli anniversari rischiano spesso di riempirsi di retoriche. A tale condanna non si sottrae neppure il quarantennale della tragica morte di Enrico Berlinguer.
Quando il segretario del Partito comunista italiano, soprattutto negli ultimi anni di vita, era in piena attività diversi compagni autorevoli lo contestavano perché aveva aperto ai movimenti: dal femminismo, alle associazioni pacifiste, ai gruppi impegnati sull’ambiente, all’universo operaio, al moto per la moralità.
Il manifesto, da ultimo con lo speciale dello scorso venerdì 7 giugno, ha tratteggiato con rigore una figura certamente straordinaria, la cui morte pressoché in diretta mediatica ne ha fatto un simbolo della voglia di lottare senza prudenze e senza paura: in quel comizio di Padova parlavano sia la voce sia il corpo. E ciò ha eletto Berlinguer nel pantheon dell’immortalità.
Tuttavia, nel racconto non privo di luoghi comuni e di approssimazioni sfugge il ricordo di un frammento cruciale per cogliere lo sforzo di una ricerca teorica e culturale nient’affatto scontata, in un’epoca in cui il ceto politico non aveva neppure capito che nel frattempo era successo qualcosa nel mondo dell’informatica: la famosa finale cult del Super Bowl del rito nordamericano fu introdotta proprio nel 1984 dallo spot di Ridley Scott per il computer Mac della Apple.
Invece, Berlinguer aveva colto le novità. Peccato davvero che non sia riconosciuta tale virtù, che valorizza non poco una pur eccellente biografia.
La sintesi delle intuizioni evocate si trova in una felice intervista resa a Ferdinando Adornato dal titolo emblematico «Orwell sbagliava, il computer apre nuove frontiere», pubblicata sul supplemento al numero di domenica 18 dicembre 1983 de l’Unità. Quando il quotidiano del Pci vendeva nel giorno di festa circa un milione di copie. Vale a dire poco meno della cifra raggiunta oggi dalla somma di tutte le testate.
L’occasione narrativa veniva dal volume di George Orwell 1984, in cui l’autore disegnava un futuro distopico, nel quale le macchine avrebbero soffocato il genere umano. Berlinguer (in buona compagnia, con Ken Follet e altri) aveva interpretato quel blasonato testo – quando lo lesse nel 1950- come una metafora contro l’Unione Sovietica sulla scorta dell’imperante anticomunismo della guerra fredda. Si corregge nella conversazione, ma forse gli rimane il dubbio, mentre Orwell fu un socialista anarchico impegnatissimo nella lotta contro la Spagna di Franco.
Ma l’intervista è straordinariamente moderna ed attuale, individuando nelle tecnologie non solo un rischio, bensì un’opportunità per l’arricchimento della civiltà. Sono parole che oggi ben si prestano a discutere degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale, ad esempio.
Si coglie la portata della transizione in corso, da non relegare solo ad un mutamento degli assetti produttivi e delle strutture del capitalismo maturo. Si tratta di una vera e propria crisi del mondo.
E per capire ciò che accade è indispensabile impadronirsi della conoscenza dei fenomeni. Guai a rimanere agli archetipi disegnati dalle élite intellettuali, vogliose di conservare il proprio potere e di opporsi di fatto alla diffusione dei saperi.
Con coraggio e persino con qualche spavalderia Berlinguer tocca temi sensibili come l’inesorabile parabola discendente della vecchia concezione del partito, mentre servono progetti e «pensieri lunghi» fondati su analisi scientifiche della realtà.
Insomma, un vero programma di un soggetto politico che da lì a breve sarebbe andato incontro alle tragedie del 1989, accompagnate dalla rivoluzione fredda dell’elettronica già connessa in rete. Internet premeva alle porte, nella disattenzione dei gruppi dirigenti.
Anche per questo Enrico Berlinguer fu un’eccezione, che il destino cattivo ha spento molto prima del tempo naturale,
Chissà come avrebbe gestito quel fine secolo un segretario diventato via sempre più acuto, curioso e rabdomantico. Se non vogliamo cadere nella facile logica dei santini, riprendiamo quei discorsi a mo’ di criterio interpretativo per la quotidiana convegnistica sulle tecnologie: cogliamone il senso.
(Da Il Manifesto)