Ribelli: aggettivo qualificativo, femminile e plurale

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Tre interpreti molto diverse tra loro per storie ed esperienze, Antonella QuestaValentina Melis Teresa Cinque e un esperimento teatrale rivoluzionario: Stai Zitta di Michela Murgia, il saggio del 2021 in cui la scrittrice raccoglie tutti gli stereotipi  sociali  per discriminare le donne, trasposto in una pièce intensa ed esilarante, in scena a Spazio Rossellini sino al 19 maggio.

Ci fanno sorridere amaramente perché li riconosciamo tutti i pregiudizi più subdoli, quelli che noi stesse abbiamo introiettato, consideriamo naturali e  subiamo con placida rassegnazione. A partire dalla limitazione del diritto di parola, come ben spiega Murgia nel libro: di tutte le cose che oggi le donne possono finalmente fare -indossare un camice da medico o la toga, la divisa dell’ esercito o la tuta da astronauta- quella più sovversiva è ancora prendersi la parola. L’ invito  rivolto dal maschio al silenzio, ai toni moderati, al profilo basso è una costante nel confronto dialettico tra i sessi: dal “mansplaining” , le spiegazioni maschili non richieste, al “tone policing”, il rimborso ad abbassare i toni quando a spiegarsi è una donna, sono solo due esempi delle pessime abitudini che ancora subiscono  opinioniste e  giornaliste quando provano a far sentire la loro voce e a proporsi in modo assertivo. L’idea stessa del libro è venuta a Murgia dopo che lo psichiatra Morelli, inervistato da lei in radio, perse le staffe e le disse per tre volte “ Zitta, zitta, zitta” come atto estremo contro l’ affronto più grave: esprimere le proprie opinioni a un microfono.

“Di tutte le cose che posso fare nel mondo, parlare è la più sovversiva” dice Teresa Cinque, che, sul palco, nei panni della sociolingusta Vera (e il riferimento alla sociolinguista Vera Gheno non è puramente casuale) si dibatte tra parole, nomi e diritti negati proprio attraverso il linguaggio: ecco il famigerato tema della declinazione al femminile delle professioni (accettato solo finché non si sale nella scala sociale, per cui maestro diventa maestra ma ministro giammai; parrucchiere diventa parrucchiere ma ingegnere per carità) o quella brutta abitudine di chiamare le donne per nome ma senza cognome nei titoli dei giornali e, naturalmente, con titoli nobiliari e fiabeschi:  la regina dei numeri, la dama delle bollicine, la principessa del tennis…

Ma i temi di Stai Zitta sono davvero tanti: c’è quello della declinazione al maschile del potere in cui incappano le poche donne che raggiungono posizioni di vertice e poi non mandano giù l’ ascensore sociale per portare al vertice anche le altre. Quello del linguaggio della stampa quando racconta le donne: fragili, vittime, vulnerabili ma anche e soprattutto corresponsabili dei reati che subiscono, provocatrici, biasimabili, colpevoli sempre. Quello del sessismo dentro i luoghi di lavoro. Quello dell’abuso dell’epiteto “madre”, ambivalente, mitizzato, strumentalizzato, abusato, vituperato come mero dettame sociale invece che come scelta critica è libera.  Quello del “cat calling” perpetuo in tutti gli ambienti possibili immaginabili, con la pretesa che sia accettato e ricb8ato in quanto “ si tratta  solo un complimento”.  Stai Zitta è un manifesto e nel trasporlo a teatro  il rischio ratatouille era altissimo. Eppure la regista Marta Dalla Via e le attrici Questa, Melis e Cinque riescono ad evitarlo con sapienza, portando sul palco tre donne reali e diversissime tra loro, le menzogne e le lusinghe dell’essere figlie e vittime del patriarcato. Ma anche la voglia di ribellione, per se stesse e per tutte: così Vera divisa tra il suo ruolo pubblico di docente femminista e il disagio personale di avere un partner più giovane, la ex soubrette Martina (Valentina Melis) che ha abbandonato la carriera televisiva per dedicarsi solo alla famiglia nell’illusione che quello fosse l’ unico vero sogno della sua vita e Letizia (Antonella Questa), il più incredibile delle tre personagge, la donna in politica, candidata al seggio di presidente di Regione (e anche qui c’è un’omonimia che non è puramente casuale) che  per vincere deve sottostare a tutti i dettami del potere nel modo in cui lo declinano i maschi: “il potere non è tuo, te lo hanno prestato, e così come te lo hanno dato te lo possono togliere”. A partire da come ci si debba vestire e a cosa si debba dire in un dibattito pubblico, “perché quello che fa vincere un uomo, fa perdere una donna”. Tanto che il punto più importante della sua campagna elettorale è la proposta di una pensione/stipendio per tutte le donne che scelgono di fare le casalinghe: “State a casa e non sentitevi in colpa!” e poi i refrain di tutte le canzoni della nostra musica leggera che ci ritroviamo in testa e in bocca a ogni piè sospinto nelle stagioni della nostra esistenza: lo sappiamo che non dicono cose giuste ed eque, ma sono la colonna sonora della mostra vita e quindi compulsivamente le recitiamo, facendoci ancelle di quel patriarcato che ci vuole così, docili, addomesticate, silenti, al massimo leggiadre e soprattutto canterine. Letizia, Martina e Vera, rigorosamente senza cognome – non sia mai che una donna viene definita per intero – parlano a tutte noi, sono tutte noi. Ci fanno ridere, ci fanno pensare, ci fanno anche commuovere, tanto. In un virtuale percorso esistenziale e catartico che va  dalla scena iniziale in cui fanno il verso alle tre fatine della Bella addormentata nel bosco dei fratelli Grimm, di fronte a tre cavoli di diversa forgia (che evocano fortemente alla maternità, al lavoro domestico e di cura, alle favole con cui ci nutrono dalla nascita, alle velleità su cui ci deviamo per non farci occupare dei temi scientifici) a quella finale, liberatoria e coinvolgente. Questo è il percorso a ostacoli di tutte le donne ma ora non abbiamo più scuse e lo sappiamo tutte: la rivoluzione culturale o sarà donna, o non sarà.


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