Il prossimo 28 maggio saranno cinquant’anni dalla strage di piazza della Loggia, emblematica del clima di un’epoca e dell’esigenza, avvertita dai poteri occulti, dai servizi collusi e dal peggio del peggio della politica, istituzionale e non, di arginare il moto di partecipazione popolare che in quegli anni attraversava la società italiana. L’hanno ribattezzata “Strategia della tensione”: il tentativo di una svolta autoritaria sul modello delle dittature iberiche o dei Colonnelli in Grecia, il sovvertimento della Costituzione e dei suoi valori, già allora particolarmente invisi a chi non ne accettava la chiara matrice anti-fascista, e infine il freno da porre a ogni costo alle legittime speranze di cambiamento della generazione nata nel dopoguerra, che non si accontentava più del solo pane ma voleva anche le rose.
Il prologo lo si ebbe nell’estate del ’64, con il famigerato “tintinnar di sciabole”, l'”Affaire SIFAR”, magistralmente svelato da un’inchiesta dell’Espresso condotta da Scalfari e Jannuzzi, con il coinvolgimento di alcuni vertici militari e una discreta benevolenza da parte di quelle frange conservatrici della DC che non vedevano certo di buon occhio il primo centro-sinistra a guida Moro-Nenni. L’apice dell’orrore lo si ebbe il 12 dicembre del ’69 in piazza Fontana: le bombe che mutarono per sempre il corso della storia italiana, la cosiddetta “perdita dell’innocenza”, la “Strage di Stato” che fu senz’altro fra le ragioni scatenanti della furia brigatista cui avremmo assistito nel decennio successivo.
“Io so” scriveva Pasolini. E, in effetti, è probabile che uno dei più grandi intellettuali che il nostro Paese abbia mai avuto sapesse, o comunque avesse intuito, cosa fosse il golpe strisciante che ci ha accompagnato per due, se non tre, decenni. Un progressivo svuotamento delle istituzioni, lo stravolgimento della Costituzione e dei suoi valori, l’assoggettamento della magistratura e del giornalismo, la perdita di senso della politica, l’allontanamento delle masse dalla partecipazione al voto, la “spoliticizzazione”, per usare un’altra celebre espressione pasoliniana, che oggi è giunta al diapason, con percentuali di astensionismo che minano la tenuta stessa del nostro sistema democratico.
È come se vivessimo immersi in una costante riedizione del Piano di rinascita democratica, in una P2 senza limiti temporali, suggello e simbolo dell’eterno fascismo italiano, attualmente agevolato dalla debolezza delle istituzioni nazionali ed europee e dal fatto che le persone abbiano smesso di credere in qualcosa. È come se la bomba di Brescia, città scelta apposta per la sua natura mite e cattolica, dunque insospettabile, perfetta per lanciare un avvertimento in grande stile, esplodesse ogni giorno.
Piazza della Loggia come San Benedetto Val di Sambro, nell’agosto del ’74, e il Rapido 904 nella Grande Galleria dell’Appennino, nel dicembre dell’84, come Ustica, come Bologna, giù fino alle stragi mafiose del ’92-’93: non si comprende ciò che sta accadendo adesso se non si guarda negli occhi quel trentennio. Dal ’64 al ’94, infatti, ci siamo giocati tutto ciò che la Resistenza ci aveva lasciato in eredità; il resto è stato un’agonia, di cui il berlusconismo ha rappresentato solo la punta dell’iceberg. Se tutto ciò che abbiamo visto negli ultimi trent’anni è stato possibile, difatti, è perché nei tre decenni precedenti si è prodotta una mutazione antropologica del nostro vivere civile che ha intaccato il modo di pensare, sentire e intendere la vita di intere generazioni. Se un magnate della televisione è potuto arrivare a Palazzo Chigi, significa che i tempi erano maturi. Se ora abbiamo un esecutivo che non si dichiara anti-fascista, pur avendo giurato su quel che resta della Costituzione, vuol dire che il gellismo ha avuto la meglio. E se i prossimi trent’anni rischiano di essere assai peggio di ciò che abbiamo vissuto finora, è perché il nostro corpo pubblico è ormai privo delle necessarie difese immunitarie.
Il sangue delle stragi, siano esse di Stato, nere (spesso collegate a servizi e apparati che lavoravano per interessi ben distanti da quelli nazionali) o mafiose (talvolta ci sono dei collegamenti), è ricaduto su di noi, minando in maniera irreversibile la credibilità delle classi dirigenti agli occhi della cittadinanza.
Ricordiamo le vittime di Brescia, a mezzo secolo di distanza, con la straziante certezza di non conoscere i nomi dei veri mandanti di quella carneficina: forse talmente evidenti da non poter essere visti, forse talmente potenti da non poter essere rivelati. Probabilmente, ci vorranno ancora decenni per conoscere la verità, per sapere chi fossero i burattinai che tiravano i fili del golpisti italiani, per collegare Milano a Reggio Calabria, Peteano a Brescia, Bologna a Capaci e via D’Amelio. Può anche darsi che tutto questo non lo scopriremo mai, anche se abbiamo l’impressione di sapere già abbastanza e di intuire il resto. Non abbiamo le prove, al massimo qualche indizio, ma quel che si sa val la pena di rivelarlo.
Mezzo secolo dopo ci rendiamo conto di quanto siamo peggiori rispetto ad allora, di quanto l’anti-politica la faccia da padrona e di quanto sia difficile dar torto a chi ha preferito arrendersi. Nonostante ciò, noi andiamo avanti. Se non altro, perché non ci è rimasto molto da dire e da fare, in quest’Italia che sta vivendo una delle stagioni più fosche della sua storia recente e nella quale si rischia un’ulteriore devastazione dei beni comuni, primo fra tutti la Costituzione.
È triste tornare in quella piazza e rendersi conto che ormai, al di là di qualche cerimonia ufficiale, tutte le piazze sono vuote. La passione è finita, la gente è andata altrove e le urne vengono sempre più disertate. Basta questo per prendere atto che la nostra, ormai, è una democrazia solo di nome. Nella sua essenza, non siamo in grado di definirla.
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