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Peggio della par condicio ci sono solo i suoi detrattori

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Sta assumendo proporzioni imbarazzanti e talvolta vergognose l’attacco alla legge 28 del 2000, la cosiddetta par condicio. Come se fosse ovvio, un giorno dopo l’altro esponenti del mondo politico o conduttrici e conduttori televisivi pronunciano parole aspre e polemiche contro una disciplina in vigore da quasi un quarto di secolo e ritoccata un paio di volte senza -però – mutamenti sostanziali.

La struttura di quel testo, nato non solo per ovviare all’assenza di riforme promesse e disattese (regolazione del conflitto di interessi, intervento sulle concentrazioni) bensì per adeguare l’Italia alla gran parte di molti paesi europei e non, è assai semplice: nel periodo stretto della campagna elettorale ogni soggetto ha eguali diritti e doveri. Tutte e tutti stanno appaiati sulla linea di partenza della corsa, senza privilegi per chi ha avuto maggiori consensi nelle precedenti consultazioni. Come se chi avesse nel curriculum qualche primato potesse avvalersi di un vantaggio di diversi metri in una corsa veloce, o se le squadre scudettate fossero fornite di un po’ di punti in più all’inizio del campionato. Tra l’altro, la Lega di Salvini o Fratelli d’Italia solo pochi anni fa erano attorno al 4% dei consensi. Se sono cresciuti lo si deve anche al rispetto di una legge che ora viene calpestata. Usa e getta. Nelle variopinte insolenze spicca il monologo di Bruno Vespa dopo la caduta dell’agognato duello Meloni-Schlein, contro il quale assolo vi è stato un ricorso vittorioso di Michele Santoro. Vespa si ritiene probabilmente al di sopra della legge e dello stesso vertice dell’azienda in cui opera -per sua scelta non casuale – in qualità di «artista». Simile anomalia si trascina da un tempo davvero eccessivo. Vi sono, poi, i surrogati della par condicio, come avviene in diversi talk. Qualcuno sì, qualcuno no, a scelta. Nell’ultimo mese non ci può essere alcuna interpretazione strumentale di un articolato immaginato per garantire il rispetto dei cittadini utenti ed elettori. Va sottolineato, comunque, che una legge pensata in età analogica e a fronte di un sistema politico bipolare ancorché pluripartitico richiede una riflessione. Ma, per raggiungere simile obiettivo, è necessario depositare in parlamento proposte concrete. Ciò che appare offensivo e urticante è la pura grida demagogica contro la presunta cavillosità di materiali che numerosi critici sembrano non avere neppure letto.

Peraltro, la complessità vera o presunta deriva dai regolamenti applicativi della l.28/2000, piuttosto che dal testo madre. Anzi. Se si fosse rimasti nell’ambito delle previsioni originarie senza appesantirle con commi specifici (vedi il 7-ter dell’articolo 4 del documento della commissione di vigilanza), il caso dei «duelli» sarebbe stato risolvibile nell’ambito della normalità della programmazione informativa. Ecco perché è amaro assistere ad uno stillicidio senza soluzioni e meramente giaculatorio. Comunque, ci si metta l’animo in pace. In qualsiasi riforma non è credibile smontare la struttura fondamentale delle pari opportunità dei soggetti in campo. Meglio, allora, un’abrogazione con cinica determinazione. Se mai, l’argomento enorme da trattare è il capitolo della rete e dei social. L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni nel luglio del 2023 inviò una segnalazione alle Camere sull’argomento, nella sostanza condivisibile. Sono urgenti, infatti, modifiche che tocchino la trasparenza dei finanziamenti, la presentazione dei post come sequenze della campagna, il silenzio elettorale, il divieto della pubblicazione dei sondaggi nei 15 giorni prima del voto. E altro previsto dalla stessa segnalazione. Di questo è necessario discutere, non dimenticando il problema ad elezioni concluse. Insomma, il tono polemico utilizzato in modo così debordante si giustificherebbe se ai giudizi acidi si accompagnasse l’invito a introdurre nei calendari istituzionali la modifica della legge. Pensiamo al prevedibile marasma nel caso si arrivasse – ad esempio – al referendum sul premierato, dove si deciderà sulla tenuta o meno della Costituzione repubblicana.
(Da Il Manifesto)


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