Mi sono domandato spesso come sarebbe stato il mondo senza Paul Auster. Era, infatti, uno di quei narratori in grado di segnate un’epoca, proprio come Faulkner aveva caratterizzato i decenni tragici del verismo americano e Kerouac gli anni della Beat generation, dell’America contestatrice e della rabbia giovanile che si trasformava in un progetto a metà fra il cambiamento politico e le aspirazioni rivoluzionarie.
Auster, al pari di Woody Allen, ha raccontato come nessun altro la Grande Mela e le sue contraddizioni. Amava quasi tutto di New York, città cui ha dedicato la sua celebre Trilogia, ma non esitava a metterne in evidenza i limiti, i difetti e le assurdità, proprio come non esitava a denunciare i ritardi, gli errori e gli orrori di un Paese di cui comprendeva e denunciava, da par suo, il declino.
Possiamo dire che è stato un post-moderno, possiamo provare a incasellarlo in vari modi, possiamo sostenere che abbia rappresentato la coscienza critica degli Stati Uniti a cavallo fra il Novecento e il Duemila, ma sarebbero tutte definizioni riduttive. Auster, infatti, è stato un gigante proprio perché unico nel suo genere, ribelle, capace di graffiare la pelle di una Nazione in guerra con se stessa, di raccontarne le viscere, di descriverne le atmosfere profonde e di condurci all’interno di una città che è sempre stata, al contempo, affascinante e folle, bella e indecifrabile, una sorta di pre-America, l’ultimo appiglio del Vecchio mondo prima che si spalanchino le pianure e le praterie di uno Stato-continente, immenso e incapace di trovare un ruolo definito nel mondo multipolare che si è venuto a creare.
Settantasette anni di vita intensa, di capolavori a ripetizione, di battaglie vinte e perse, di coraggiosa resistenza all’orrore e di narrazione di sé e di noi, in una perfetta mescolanza di singoli e comunità, il connubio ideale del pensiero progressista, oggi tuttavia in seria difficoltà in quest’America pervasa da crescenti tensioni e proteste sempre più violente.
Paul Auster ci ha preso per mano, ci ha guardato negli occhi e ci ha indicato una strada. Forse è per questo che ci sembrava di conoscerlo di persona, da sempre, fino a considerarlo uno di famiglia e a provare ora un senso di incredulità e di spaesamento di fronte a una morte che era attesa ma non per questo risulta meno dolorosa.
Se ne va mentre i campus universitari sono attraversati da una mobilitazione studentesca che profuma di Sessantotto, mentre la sua New York pare sempre più estranea a un universo che ribolle di rabbia e ha perso la speranza, mentre la letteratura si interroga sul proprio ruolo e sulla propria funzione sociale: intellettuale collettivo o sfoggio di cultura fine a se stesso? Battaglia politica costante o resa? Il lasciarsi andare non gli apparteneva, la sconfitta della dignità umana proprio non l’accettava, meno che mai l’abbandono della scena pubblica. E per questo dedicava ogni singolo giorno a indagare l’esistenza, a interrogarsi sulla solitudine e a combattere contro i propri demoni. Non è stata una vita facile, la sua, tutt’altro. Ha subito lutti, pianto lacrime amare e infine è stato sconfitto da un tumore che ce l’ha portato via quando avrebbe ancora tanto da dire e da dare. Di lui ci mancherà soprattutto l’umanità, virtù sempre più rara in questo tempo barbaro e privo di emozioni.
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