“Leonora addio”, di Paolo Taviani, Italia, 2022

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Con Fabrizio Ferracane, Claudio Bigagli, Matteo Pittiruti, Roberto Herlitzka

L’ultima opera di Paolo Taviani, scomparso lo scorso febbraio, nonchè sua prima regia in solitario, dopo la morte del fratello Vittorio, cui dedica il film, si presenta come un’elegia esistenziale sviluppata in due distinti episodi. Uno legato alle vicende della traslazione delle ceneri di Luigi Pirandello da Roma ad Agrigento, sua città natale, in un dopoguerra evocato anche attraverso citazioni filmiche di capolavori del e sul periodo, come “Il sole sorge ancora” di Vergano, “Paisà” di Rossellini, “Il bandito“ di Lattuada ed “Estate violenta” di Zurlini. L’altro ispirato al racconto “Il chiodo”, ultima grande e sofferta opera proprio del grande scrittore siciliano, che all’attento spettatore ricorderà temi e assunti che saranno fatti propri da Albert Camus, ed in particolare riversati nel suo romanzo “Lo straniero”. Il corpo centrale del film viaggia con le ceneri di Pirandello, intrappolate in un’urna kafkiana che riflette la vacuità dell’esistenza. L’incipit del film richiama il finale di “2001: Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick. La camera da letto del morente Pirandello, avvolta in un abbacinante bianco e nero efficace quanto i colori abbaglianti del genio americano, preannunzia palesemente l’intero tema del film, la morte. Taviani si confronta con il nulla, con l’insignificanza di una vita ormai spenta. E la solennità dell’immagine succitata acuisce ancora di più questo senso dell’alterità “disumana”.

Le ceneri del drammaturgo siciliano, disperse e in balia degli eventi, incarnano la fragilità dell’essere umano di fronte al destino ineluttabile. La cassetta contenente i suoi resti sarà utilizzata persino come sostegno per giocare a carte da alcuni viaggiatori del treno diretto ad Agrigento. L’ironia beffarda messa in scena dal regista toscano sembra collimare proprio con quella dell’autore dei Sei personaggi. L’episodio tratto da “Il chiodo”, una delle “Novelle per un anno”, che chiude il film, si lega fortemente alle vicende delle ceneri, divenendo una meditazione sulla sorte umana, laddove il chiodo del titolo, occasionale e simbolico oggetto di svolta della vita del giovane protagonista, rappresenta l’incapacità di sfuggire al peso del passato e all’insensatezza della vita così come la viviamo. E se per Meursault, protagonista del succitato capolavoro di Camus, l’ossessione attivata dal sole accecante e dal mare indifferente diventa distacco dinnanzi al corpo morto della madre, tale è la distanza da una realtà inaccettabile e priva di senso, il chiodo diviene per il giovane immigrato Bastianeddu un veicolo per immergersi nell’assurdità dell’esistenza. Le sue tristi vicissitudini sono l’ideale prosecuzione dell’altra grande citazione visiva che Paolo Taviani ci regala, “Kaos”, 1984, uno dei capolavori assoluti realizzati con il fratello Vittorio, tra l’altro primo loro incontro con Pirandello (il secondo sarà “Tu ridi”, nel 1998). E’ così che l’opera del sommo artista agrigentino e quella di Camus si intrecciano nel film, entrambe permeate da una profonda riflessione sulla natura umana. L’estraniamento e l’incomunicabilità emergono con forza in entrambi gli autori. E Taviani sembra fare da geniale trait d’union. Se Meursault incarna l’uomo ribelle di fronte ad un mondo incomprensibile, Pirandello, cui presta, fuori campo, la sua sublime voce il grande Roberto Herlitzka, attraverso le sue opere e la sua stessa vicenda biografica, esplora le contraddizioni e le ipocrisie della società, smascherando l’illusione della verità e dell’identità, fino a disvelare la totale assurdità della nostra esistenza.

La pellicola dell’artista toscano diventa un invito a riflettere sul senso della vita e della morte, sulla fragilità dell’essere umano e sulla bellezza effimera del mondo. Laddove gli splendidi paesaggi siciliani sembrano aprire allo spettatore varchi verso una profonda libertà interiore, la narrazione chiude inevitabilmente ogni speranza ad una visione ottimistica della vita, sposando appieno il pessimismo assoluto e doloroso cui era giunto Pirandello alla fine della sua vita. Taviani ci conforta, però, attraverso un cinema fatto di riflessioni e sussulti dell’anima, capaci di andare oltre le apparenze visive per sprofondarsi poeticamente negli abissi della mente e nelle debolezze dell’Uomo. Muovendosi tra filosofia ed epica, entrambe capaci di intercettare la Storia, il regista toscano riallaccia il suo film a tutti quelli realizzati con il fratello Vittorio, quasi a comporre una sintesi della loro maestria registica. Questo a dimostrazione che fare arte significa prima di tutto avere un’idea del mondo e di chi lo abita, con la forma che diventa tutt’uno con la narrazione perché è quest’ultima che ne delinea i contorni entro cui muoversi liberamente, come il cinema pretende. L’immagine restituisce altra immagine, quella che nasce dalla realtà non più così come è ma così come è necessario rappresentarla. Insomma, Pirandello e Taviani insieme come un unico artista…


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