Un uomo elegante e una giovane donna dai capelli rossi e scarmigliati percorrono un sentiero in salita. Si sente la fatica, il fiato grosso, i muscoli dolenti ma si avvertono anzitutto la determinazione, l’imbarazzo, il bisogno di arrivare, l’altalena di avvicinamenti e prese di distanza, perché la confidenza che dovrebbe esistere tra padre e figlia è stata alterata da quindici anni di reclusione durante i quali lei ha scontato una pena per una colpa grave e irredimibile.
Silvia Avallone in Cuore nero, edito da Rizzoli, mostra subito Emilia, la protagonista di questa bellissima e trascinante storia, nei suoi guasti e nelle sue asprezze. La vediamo muoversi come un animale braccato, spinta dalla necessità di approdare ad un altro nascondiglio, Sassaia, luogo della sua infanzia ormai quasi disabitato, nel quale continuare ad esistere dopo l’uscita dal carcere. Di esistere nonostante il male fatto, che non si è ridotto di intensità durante il periodo detentivo e che le cammina accanto come un’ombra e tracima nel sangue che sgorga dai tagli che si pratica sulle braccia quando il dolore è insopportabile. Suo padre, architetto affermato, innocente e già straziato dalla perdita della moglie, l’ha guidata a distanza come Virgilio attraverso l’Inferno, ma il viaggio negli inferi di Emilia non è stato voluto dalla grazia divina e lei non sembra destinata a riveder le stelle. Le sue sono fiamme interiori che lambiscono l’anima più che il corpo, dalla colpa non si viene fuori se non a patto di nominarla e di accettarla senza negazioni o rimozioni, ma questo processo è bloccato, inceppato nella convinzione che solo tacendo il male esso possa respirare quieto in angolo di cuore, quasi inoffensivo eppure pronto a divampare alla minima sollecitazione
A raccontare di Emilia è Bruno, altro sepolto vivo di Sassaia, rimasto orfano da bambino per un tragico incidente in funivia dal quale lui e la sorella si salvano per uno assurdo scherzo del destino. La sua vita è irrimediabilmente segnata da una doppia assenza che non è riuscito mai ad elaborare e solo il lavoro con i pochissimi alunni del borgo più vicino riesce ad impartire un ordine alle sue giornate e sbiaditi colori alla solitudine eletta a fedele compagna.
La voce narrante di Bruno accompagna il lettore creando una specie di complicità, perché la sua ricerca della verità sul passato di Emilia (che lui racconta da spettatore partecipe o, come l’autrice precisa in più punti, dopo averla da lei appresa) coincide con la sete di sapere di chi legge, mentre si fanno strada il bisogno di esplorazione dei suoi sentimenti, risvegliatisi dopo un lungo, voluttuoso torpore, e una timida consapevolezza di sé e di quanto del proprio passato possa ancora essere recuperato, come il rapporto sbilenco e usurato con la sorella. Lui non ha colpe, ha subìto un danno, ha sofferto senza aver provocato sofferenza; è naturale affezionarsi alla sua mitezza, al suo candore, alla sua capacità di abbandonarsi ad un sentimento nuovo e travolgente senza desiderare in cambio nient’altro che la verità; è facile apprezzare il suo sacrificio, cioè la rinuncia a sapere, se fare luce sul buio di quella creatura selvatica e spigolosa che la pietrosa Sassaia gli ha donato può comportarne l’allontanamento.
Scaturiscono pian piano, tra continui slittamenti temporali, i tanti elementi presenti nel romanzo, scritto con un linguaggio crudo, talvolta sporcato da un lessico rabbioso e volgare, che sa anche costruire periodi dolci come carezze, inserire dialoghi spontanei e densi e indugiare su pensieri che restano in mente con la potenza degli aforismi.
Ed ecco la dislessia, che da una parte condanna Emilia a comprendere il mondo prevalentemente per immagini e dall’altra le offre la possibilità di ricostruirsi come essere umano proprio per mezzo dell’amore per quelle immagini, amore che passa attraverso l’arte del restauro (bellissima la figura del vecchio pittore Basilio, che le farà da mentore in questo percorso pur conoscendo la verità), metafora intensa per chi deve riportare alla luce ciò che resta di un tempo puro che fu e che non può essere più nemmeno ricordato o concepito. Ridare lucentezza e vita ai dannati del giudizio universale, averli “aiutati a riemergere dal nerofumo in tutta la loro sgargiante disperazione” si configura quindi come un beffardo contrappasso per chi ha conosciuto il male e la condanna.
Ecco l’amicizia tra sbandate (intensa e conturbante la figura di Marta, la capobranco indiscussa che dispensa crudeltà e dedizione), giovanissime donne considerate la feccia della terra eppure piene di pulsioni, di desideri, di sogni che non sanno nemmeno di possedere o che considerano un lusso immeritato perché la colpa ha divorato tutto, anche la possibilità di creare nella mente quelle illusioni così care e così necessarie al cuore.
Ecco i genitori di Bruno, assenti nella storia ma presenti nelle ferite infette lasciate in eredità al figlio bambino, ed ecco il padre di Emilia, sempre presente anche quando incalza la bufera, quando è chiaro che non serve coprirsi, perché si è sempre esposti e nudi di fronte alla cattiveria della gente e di fronte al dolore irreparabile di una figlia che ha distrutto se stessa e un’altra giovane vita.
Ecco la descrizione della condizione carceraria e i timidi tentativi della burbera ma illuminata direttrice pronta a comprendere che solo un percorso scolastico e l’accostamento alla cultura possono trasformare l’immobile disperazione in fiduciosa attesa e possono divenire possibilità concreta di riscatto e di reinserimento sociale. E poi l’assistente sociale e la psichiatra, figure chiave, veri e propri grimaldelli che, se usati con cuore e professionalità, possono scardinare le chiusure autodistruttive.
Infine l’amore incondizionato, quello interrotto, quello accarezzato, quello vissuto. L’amore che tutto ripara anche quando non ricompone i cocci delle vite infrante, ma si limita a raccattarli affinché messi accanto possano riconoscersi e avvicinarsi.
Forte dell’esperienza vissuta all’Istituto penale minorile maschile di Bologna, dove ha condotto laboratori di lettura e di scrittura, Silvia Avallone consegna un romanzo bellissimo dallo stile perfetto, pregno di dolore e di speranza, senza dispensare giudizi morali e senza scivolare in facili sentimentalismi. Dopo averlo letto siamo portati quasi spontaneamente a pensare che davvero dal male possa nascere il bene e magari ad illuderci che ciò non accada solo nei romanzi.
Silvia Avallone
Cuore nero
Rizzoli editore
pp.370
20,00
La nuova lucentezza dei dannati. “Cuore nero” di Silvia Avallone