Il dramma su cui s’impernia il récit del romanzo di Matteo Righetto Il sentiero selvatico è una sparizione. Una sparizione che avviene quasi subito, alla fine del primo capitolo. Ed è la sparizione di colei che si capisce fin dal primo capoverso essere la protagonista: «Nessuno a Larcionèi serbava memoria di tanta pioggia negli ultimi cento anni, men che meno Tina, che di anni ne aveva soltanto dieci.» (Matteo Righetto, Il sentiero selvatico, Feltrinelli, Milano 2024, p.13).
Siamo nel 1913 a Larcionèi, una frazione di Livinallongo, tra Canazei e Cortina d’Ampezzo. Piove da settimane senza tregua. Gli abitanti sono esasperati. Molti pensano a una punizione divina. Un mese prima è stata vista una luce bluastra sui monti, dall’altra parte della vallata. Una palla luminosa che scende dai boschi, rotola e sprizza scintille viola prima di svanire. Un’epifania miracolosa. Un segnale dell’aldilà, celeste o infernale, comunque minaccioso.
Ci troviamo nella chiesa parrocchiale, alla messa di commemorazione dei defunti di novembre. La chiesa è affollata. Ci sono tutti. Ciascuno è assorto nei propri pensieri. L’odore dell’incenso si diffonde nell’aria umida e tiepida della piccola navata. Marta, la madre, pensa ai propri morti. Paolo, il padre, pensa al raccolto di canapa rovinato dalla pioggia. Tina, la figlia, pensa ai suoi amati animali del bosco (orsi, lupi, stambecchi, scoiattoli) e all’improvviso sparisce. Se ne accorge Marta che lancia l’allarme: dov’è Tina? Don Bruno interrompe la funzione. Incomincia una spasmodica ricerca che si protrae per un giorno e una notte e che coinvolge tutta la comunità, nel paese e nei boschi, sotto una pioggia battente.
Il giorno dopo, al culmine della disperazione, soprattutto dei genitori, Tina ricompare.
Tutti felici e contenti? No. Tina è strana, sembra incantata. Tiene gli occhi bassi, non risponde alle domande. Dice soltanto, sottovoce, che ha tanto sonno. E dormirà per tutto il resto della giornata e la notte seguente. Al risveglio, dice al parroco che la interroga di essere sempre stata in chiesa e di non essersi mai allontanata dai genitori. Che cosa le è capitato?
Ma la cosa più assurda è la reazione della comunità. Una reazione incongruente ma incatenata a una logica precisa. Tutti i capifamiglia, tranne la famiglia di Tina, si incontrano in canonica dal prete. Gli chiedono di intervenire. Sono spaventati dai portenti celesti (la luce bluastra, la pioggia) e dalla sparizione della bambina la notte dei morti. Ritengono che ci sia un collegamento e che ci sia di mezzo un incantesimo o addirittura lo zampino del diavolo.
È solo l’inizio. Per Tina è scattato, inesorabile, il meccanismo del capro espiatorio. È un giogo da cui non riuscirà a liberarsi se non nella Terza e ultima parte del romanzo e della sua vita. I compaesani non la perdoneranno mai. Viene accusata di essere in combutta con il diavolo, di essere una strega, di aver causato e di tramare tutti i mali possibili e immaginabili (dalla morte per infarto del prete allo scoppio della Prima Guerra Mondiale).
La sua famiglia viene emarginata, lei viene isolata dai coetanei e da chi avrebbe dovuto difenderla: la maestra. Non può più andare a scuola. Espulsa dalla comunità, trova rifugio nel bosco. La sua famiglia e la sua scola diventano le piante e gli animali.
Si costruisce, con il tempo, una sua filosofia panteistica, una sorta di credo alternativo: «Io non cerco denaro e non cerco potere. Non cerco le cose del mondo né i sentieri che portano a queste. Non cerco fama, gloria né vanità. Io non cerco uomini e palazzi, non cerco ipocrisie e falsità. Non cerco l’odio né l’amore. Non cerco giustizia se non quella che mi insegna la montagna e non cerco fede se non quella nello spirito della Terra. Non cerco che me. Cerco la verità». (Righetto, Ibidem, p.235).
Precedentemente aveva spiegato alla madre: «Lo spirito di ciò che tu chiami Dio per me vive nella natura, nelle foreste, negli abeti e nei larici che in autunno si illuminano d’oro. Vive nelle foglie che cadono per poi rinascere, vive nella forza delle rocce e sulle vette delle montagne. Vive nei ghiacciai che si fanno acqua. È il soffio di vita che muove il vento, illumina l’enrosadira, fiorisce nelle genziane e nelle stelle alpine […] La sua anima è nel volo delle rondini che ogni anno ritornano, in quello dell’aquila che supera ogni cima, nel canto del fringuello, nel bramito del cervo, nell’ululato del lupo.» (Righetto, Ibidem, pp.187-188).
Questa consapevolezza è il frutto di un’evoluzione dolorosa, di un lungo, tormentato processo di apprendimento e formazione, in larga misura da autodidatta.
In tutto il romanzo gli eventi della Grande Storia si intrecciano agli avvenimenti della piccola storia della comunità di Larcionèi. Con lo scoppio del conflitto, Paolo viene mobilitato e deve andare a combattere nelle trincee feroci e letali della Grande Guerra. Gli abitanti rimasti in paese (donne, vecchi, bambini), dato l’approssimarsi del fronte, sono evacuati. Tina e la madre vengono sfollati in Val Badia, nel paese di San Martino, presso frau Hilde, ex-perpetua del parroco di Colfosco, premurosa e accogliente. In Hilde, Tina trova un’aiutante preziosa che le fornisce non solo empatia, dopo mesi di odio, ma anche utili insegnamenti sulle piante e sulla vita del bosco. Le chiarisce i pericoli e le risorse. Le indica le piante velenose e quelle curative. Le spiega che non deve crucciarsi se si sente diversa e ama la natura e le insegna ad accettare le sue inclinazioni e la sua predestinazione.
Con la fine della guerra Tina ritorna con la madre a Larcionèi. I suoi compaesani la tengono sempre a distanza di sicurezza come un pericolo vivente. Il loro atteggiamento non è cambiato. La considerano una strega ma lei è cresciuta non solo fisicamente. Non è più una bambina. Sa come affrontare il ripudio, la discriminazione, a volte anche gli oltraggi, perpetrati nei suoi confronti. Ha imparato a difendersi, a vivere in una sua dimensione, secondo i suoi parametri e vivrà ancora a lungo.
C’è, inoltre, un livello profondo, inconscio, dello sviluppo narrativo del romanzo. Poco a poco, per spizzichi e bocconi, lampi e squarci, Tina riceve preziosi messaggi dal buco nero della sparizione iniziale e vi riconduce sprazzi di luce.
Tina non ricorda, non sa niente. Ma quando si trova nella foresta o nei suoi paraggi, le affiorano alla memoria dettagli di una scena misteriosa: «Si vide da fuori, era una bambina scalza che camminava nel bosco di notte, sotto una pioggia battente, risaliva in un bosco di tassi affondando i piedi nel fango finché a un certo punto due braccia vecchie e scheletriche scesero dai rami di un albero e la tirarono su con forza in un istante.» (Righetto, Ibidem, p.157).
Con il ritorno, dopo il periodo dello sfollamento, a Larcionèi, le tessere del puzzle si ricompongono. Tina scopre che c’è un mondo parallelo e un’altra persona che abita in lei e le parla con una sua voce. Una voce buona, di donna, che la conforta, la esorta e le dà consigli. C’è un’identità parentale e mitologica sconosciuta, una genealogia che trapela dal mondo fiabesco materno, affiora da un inconscio collettivo che le consente di accettare e ricostruire la sua vita e di condurla secondo i suoi canoni e le sue aspirazioni.
Non intendo svelare tutti i crismi di questo mistero, che poi è l’enigma di tutto il romanzo che merita di essere acquisito con lo sguardo personale di ciascun lettore. È un livello inconscio che diventa conscio. È scena che si autorivela e si ricostruisce gradualmente. È conquista di consapevolezza sia della protagonista sia del lettore che accompagna la lettura dentro la lotta per la vita e la liberazione dai pregiudizi e dalle angherie subiti dalla nostra eroina.
Un’ultima considerazione su di un aspetto non meno importante del romanzo, che riguarda la testualità.
Lo stile del romanzo, il suo linguaggio, è aderente ai punti di vista dei personaggi, che sono punti di vista multisensoriali che attingono, non solo allo sguardo, ma anche ai suoni, agli odori, ai sapori delle cose. Non mancano ricorrenti metafore e similitudini che conferiscono un carattere epico alla narrazione.
La disperazione di Marta e di Paolo, che non trovano più la loro bambina viene espressa con un’immagine che appartiene al loro mondo: «Si abbracciarono con la stessa disperazione, come due faggi spezzati e poi schiantati a terra l’uno sopra l’altro.» (Righetto, Ibidem, p.31). A Marta la figlia ritrovata sembra un «bucaneve sbocciato dopo un inverno infinito» (p.33). E a Paolo i pensieri vorticavano come la balinà, la neve a pallini duri, spinti dalla burrasca. Le abitazioni del paese, inzuppate di pioggia, vengono paragonate alle «salamandre alpine» che sguazzano nei laghetti di montagna (p.37). Tina si sveglia dalla lunga dormita e scende le scale «con il passo silente di un cucciolo di lince» (p.40). Tina «fingeva di avere le ali come l’aquila reale quando volteggia sul paese» (p.41).
Si potrebbe proseguire a lungo, con un elenco che segue, pagina dopo pagina, le avventure e le sventure dei nostri eroi.
Le similitudini ci fanno vedere, udire, percepire il mondo con le sensazioni, l’emotività, i pensieri di quel mondo. Illuminano le pieghe, i recessi della mente dei personaggi con le pieghe e i recessi della vita vissuta, della realtà. Non sono un florilegio fine a se stesso. Fanno qualcosa di più: aprendo le porte di un mondo sconosciuto, perlustrando i nascondigli, gli angoli dimenticati, le cavità invisibili, istituiscono un intreccio e configurano in altorilievo una tessitura ritmica delle percezioni e delle immagini.
Ci sono due lingue nel romanzo di Righetto: l’italiano, la lingua della narrazione e della conoscenza. Il ladino, la lingua degli affetti e della sapienza (innumerevoli proverbi costellano, commentano e scandiscono gli eventi).
Il ladino è la lingua degli ambienti di vita e degli oggetti, o meglio, delle cose, della cultura contadina, del lavoro e dell’esistenza quotidiana: il tabié, il fornél, la ciandëla, la mola de sot, la stua, il restèl, la zuma da lat, ecc. È lingua di cibi poveri, elementari, ma sostanziosi e saporiti: la menestra de orz, il formài, il lat, il pan. È la lingua elettiva della nominazione degli animali: le pite, la marmota, il duch, il giàl zédron, i louves, i ciamurces. La lingua della meteorologia, del soprannaturale, della stregoneria: il bür temp, la nef, la maladeta piova, il Lum de le Aurone, i morš, la stria, il diàol. Le due lingue si intrecciano e si intessono tra loro. Costruiscono il linguaggio, lo stile del romanzo. L’italiano è l’ordito semantico, il ladino la trama ritmica e musicale. Insieme creano quella che Pasternak chiama la risonanza dei significati, il tessuto visivo e musicale del récit. È una musica ruvida, vigorosa e policroma, pungente e vellutata, di un concerto aspro e delicato, dove le dissonanze segmentano e raccordano su nuove, inedite tonalità la melodia del libro.
«”Ma tu chi sei veramente?”
La vecchia non rispose. Se la caricò sulle spalle e prima di aprire la porta per uscire, le disse: “Varda de ester sàve, no sta a zercé i savé. L savé l è i present, l ester sàve l è l passà e l davignì. Capito?”
Tina ci pensò un po’ su e poi disse: “Cerca la saggezza, non la conoscenza. La conoscenza è il presente, la saggezza è il passato e il futuro.”» (Righetto, Ibidem, p.193).
Matteo Righetto,
Il sentiero selvaggio
Feltrinelli Edizioni, 2024
Euro 18,00