Iran. E’ silenzio sul rapper condannato a morte

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Dall’attacco di Hamas contro Israele dello scorso 7 ottobre “esiste una certa tendenza a fare distinzione tra i morti. La solidarietà è diventata selettiva, come se non si potessero difendere principi universali e piangere tutte le vittime” afferma il giornalista Pierre Haski della radio pubblica francese “France Inter”.

È la premessa per spiegare la scarsa eco che sta trovando nei mezzi di comunicazione occidentali la notizia della condanna a morte del rapper iraniano Toomaj Salehi, 33 anni, in carcere dal 2022 per essersi schierato al fianco di Mahsa Jina Amini, la ragazza uccisa dalla polizia religiosa per un velo indossato male.

“Il destino di Toomaj dovrebbe suscitare la solidarietà di tutti. Il movimento Donna, vita, libertà aveva attirato il sostegno di buona parte del mondo. La difesa del rapper iraniano dovrebbe esserne il prolungamento. Ma i conflitti nella regione hanno stravolto le cose. Il regime iraniano cerca di cavalcare i movimenti di solidarietà con i palestinesi per rifarsi l’immagine, approfittando del fatto che i campus occidentali sono concentrati su Gaza e ignorano le altre cause. La volontà di difendere i diritti umani dovrebbe spingerci a essere solidali con palestinesi, che subiscono una punizione collettiva insopportabile nella Striscia di Gaza; con gli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas (anche questo è un crimine di guerra); e con un rapper iraniano privato della libertà che rischia di essere giustiziato da un regime impietoso. Purtroppo sembra che nel 2024 questo sia impossibile” è l’amara conclusione di Pierre Haski.

Intanto il regime iraniano continua a colpire duramente gli oppositori con la creazione di un altro organismo destinato a far rispettare il codice di abbigliamento delle donne in pubblico. Le strade delle città sono pattugliate da agenti della polizia religiosa a caccia di quante trasgrediscono. Nel mirino ci sono in particolare le università dove anche ai maschi è vietato indossare abbigliamento sportivo nonché magliette e camicie a mezze maniche. Le donne restano comunque il bersaglio preferito della repressione mentre non si fermano le proteste innescate nel settembre del 2022 dall’omicidio di Mahsa. Da due anni l’Iran è scosso da manifestazioni che incarnano la più grande contestazione dello Stato dopo la rivoluzione del 1979 che costrinse lo Scià alle dimissioni aprendo la strada all’ayatollah Khomeini. Le donne in piazza stanno sfidando da due anni l’autorità senza paura di restare vittime di brutale violenza. Un esempio ed un invito rivolto a tutto il mondo perché oggi più che mai “ribellarsi è giusto”. Ma ora le iraniane e gli iraniani coraggiosi rischiano l’isolamento mentre il black out informativo può contribuire ad avvolgere le loro contestazioni di quel tenebroso silenzio che è il miglior complice del regime per soffocare ogni anelito di libertà. Spetta a tutti aiutare a non far cadere la bandiera del progresso civile.I


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