Per mille ottimi motivi, non commento mai Bruno Vespa e le sue imprese televisive. Non posso, tuttavia, tacere di fronte ai Cinque minuti andati in onda ieri sera, subito dopo il Tg1. Non entro nel merito della vicenda: mi limito a rispondere alla sua domanda conclusiva se sia questo il modello di pluralismo dell’informazione cui si deve fare riferimento. E la risposta è: sì. Nella primavera del 2001, da Vespa analizzata per l’intera durata della trasmissione, la RAI offriva, infatti, una serie di programmi oggi impensabili. Su Raiuno, per intendersi, andava in onda, nello spazio che adesso occupa lui, Il Fatto di Enzo Biagi, il quale osava persino ospitare Roberto Benigni alla vigilia delle elezioni, ottenendo ovviamente ascolti stratosferici. Nella Raidue di Freccero, invece, trovava spazio la satira di Daniele Luttazzi, il quale si permetteva di ospitare a Satyricon Travaglio, cui veniva permesso persino di presentare il saggio “L’odore dei soldi”, scritto con Elio Veltri, nel quale si rifletteva abbondantemente su come fossero nate le fortune economiche di Berlusconi. Sulla stessa rete, inoltre, si consentiva a un putribondo figuro come Santoro, già allora convintamente pacifista, di indagare sugli stessi temi, naturalmente ospitando in studio anche persone che la pensavano in maniera opposta come Paolo Guzzanti e Vittorio Feltri. Senza dimenticare il geniale Ottavo nano dei fratelli Guzzanti, figli di Paolo ma con opinioni politiche assai diverse, ai quali veniva data la possibilità non solo di ironizzare sul futuro inquilino di Palazzo Chigi ma anche sugli innumerevoli errori commessi dai governi di centro-sinistra, fra opere e, soprattutto, omissioni, prima fra tutte la mancata legge sul conflitto d’interessi.