Dopo piazza Alimonda non siamo più gli stessi

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Anch’io, al pari di Zerocalcare, ho pensato spesso, in questi mesi e anni, alla figura di Carlo Giuliani. Carlo e il suo estintore, Carlo riverso sull’asfalto di piazza Alimonda dopo essere stato ferito a morte, Carlo mentre la camionetta dei Carabinieri gli passa sopra, Carlo con la testa spaccata, Carlo simbolo e icona di una generazione sconfitta. Ebbene, su quell’asfalto insanguinato non c’è rimasto solo il suo corpo: ci siamo rimasti tutte e tutti noi. C’è rimasto chi era materialmente a Genova quel giorno, come Michele Rech, e chi come me aveva appena undici anni. C’è rimasta un’idea d’Italia, al punto che il noto fumettista ha dichiarato, in un’intervista a Repubblica, che vent’anni fa le minime contestazioni cui stiamo assistendo nei confronti dell’attuale governo e del disastro ambientale e paesaggistico cui stiamo andando incontro non le avremmo nemmeno considerate tali. Premetto che non sono d’accordo con lui quando, di fatto, non compie distinzioni tra manifestanti “buoni” e manifestanti “cattivi”, perché per formazione e visione del mondo penso che ci sia comunque una differenza fra chi esprime civilmente il proprio pensiero e chi si lascia andare a comportamenti che non riesco mentalmente a giustificare, pur comprendendone le ragioni e le cause remote. Ciò detto, è vero che abbiamo “sviluppato un’empatia solo attorno alla figura della vittima”, provando, ad esempio, empatia nei confronti delle ragazze e dei ragazzi massacrati alla Diaz e annientati moralmente a Bolzaneto ma non riuscendo a sentirci più di tanto vicini a Carlo che, al pari di Ilaria Salis, non aveva la postura della vittima.
Mi tornano in mente le tante interviste che ho realizzato, le testimonianze che ho raccolto e le lacrime che ho visto scorrere davanti ai miei occhi ogni volta che vedo questi giovani, estremamente colorati e pacifici, che gridano per rivendicare i propri diritti. E mi rendo conto che non si riflette mai abbastanza su quanto quella vicenda abbia sconvolto le nostre vite e il nostro immaginario collettivo. Perché la contestazione, prima del 2001, specie se rivolta al potere, era ritenuta sacrosanta. Poi sono intervenuti i tonfa a Genova e l’editto bulgaro a Sofia e ci è rimasto solo il diritto di applauso, ma questa allora non è più una democrazia occidentale bensì una democrazia soltanto di nome. E non che prima di allora non ci fossero esponenti politici, più o meno importanti, alquanto suscettibili, ma nessuno poteva sostenere che fosse assai difficile esprimere un dissenso compiuto e articolato. Oggi non è così. Si censura Scurati, si aprono procedure disciplinari nei confronti della Bortone, si cerca di boicottare un sacrosanto sciopero indetto dall’USIGRAI, si tenta di stravolgere la Costituzione attraverso il premierato dopo aver avviato la secessione dei ricchi tramite l’autonomia differenziata, si mette a repentaglio il diritto all’aborto e troppo spesso volano manganellate all’indirizzo dei giovani, come se li si volesse “educare” al nuovo clima che caratterizza il Paese. Questa, ribadisco,è una democrazia di facciata.
La riflessione da compiere, tuttavia, è un’altra: noi cosa abbiamo fatto per opporci? Non mi riferisco a noi di Articolo 21, che ci siamo sempre stati e sempre ci saremo, ma ai tanti che continuano a consigliarci di abbassare i toni o a coloro che lo hanno fatto fino a qualche settimana fa e adesso, bontà loro, hanno improvvisamente avvertito il bisogno di prendere posizione, cominciando evidentemente a rendersi conto che, andando avanti di questo passo, nessuno può sentirsi al sicuro.
Peccato che in questi vent’anni ci siamo giocati quasi tutto: la politica, la sinistra, la vera libertà d’informazione, la passione politica e civile, il ruolo degli intellettuali, la coscienza civica, ogni forma di comunità e, naturalmente, la coerenza, avendo adattato l’intensità della protesta contro soprusi e ingiustizie alla convenienza del momento, assumendo comportamenti assai diversi a seconda se a compiere determinate azioni fossero gli amici o gli avversari. Ma i diritti, come un tempo si insegnava anche nella più sperduta sezione sindacale o di partito, o sono per tutti o non sono per nessuno.
Un appello, in conclusione: quest’anno più che mai, il prossimo 20 luglio, in piazza Alimonda andiamoci tutti. E invitiamo a venire tutti i ragazzi e le ragazze che hanno subito violenze in ogni parte d’Italia. Prendere coscienza di ciò che è stato, mai come ora, è indispensabile affinché quell’orrore non si ripeta.

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