“Chiamiamoli rifugiati, non clandestini. Chi parla male pensa male”. Intervista a Franco di Mare

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Il pubblico va accontentato o indirizzato?
Non credo alla tv pedagogica che trovo propria dei regimi totalitari: “siccome siete il popolo bue vi dico come dovete comportarvi e cosa dovete pensare”. Questo è completamente fuori dal nostro stile. Noi possiamo semmai fornire degli strumenti a chi ne ha meno o non ha affinato i suoi. Io ti dico cosa è successo durante la giornata, e ti do alcuni strumenti di analisi. Uno psicologo, un medico o un criminologo, per fare qualche esempio, ci possono aiutare  a capire perché un ragazzo di ventiquattro anni uccide una ragazza di venti. E lo facciamo senza morbosità, ma cercando di capire il fenomeno, dando alcune chiavi interpretative. Siamo la tv che ti fornisce i dati di cronaca e gli strumenti per sviluppare un pensiero critico non quella che ti dice cosa devi pensare. Non c’è pedagogia, semmai c’è… maieutica.

Per molti anni hai viaggiato come inviato in lungo e in largo nel mondo. La politica estera in televisione non ha mai avuto grande fortuna, spesso per un difetto della tv stessa troppo concentrata sui fatti di casa nostra. Le vicende di questi ultimi mesi, tuttavia, specie per le questioni legate ai migranti hanno “costretto” il piccolo schermo a sintonizzarsi sugli esteri. In che modo cambia l’approccio?
E’ una bella riflessione da fare. Dobbiamo stabilire cosa siamo. E abbiamo due strade: possiamo dire che in quanto servizio pubblico gli ascolti ci fanno un baffo e parliamo della Siria anche se gli altri non ne vogliono sentire parlare e così cambiano canale. Oppure possiamo provare a declinare le questioni di politica internazionale in un linguaggio comprensibile che affascini e incuriosisca. Facendo capire che se noi non ci occupiamo della Siria, è la Siria ad occuparsi di noi, visto che ci sono migliaia di poveri disgraziati che arrivano sulle nostre coste perché fuggono dalla guerra. Ed è un problema anche nostro. Ottanta italiani di cui alcuni con origini straniere, altri naturalizzati, altri ancora (per fortuna pochi) italiani veri sono partiti per la Siria per andare a combattere con i ribelli o a fianco dell’Isis. Questo ci riguarda. E allora anche i temi di politica internazionale diventano più “commestibili”.

Il linguaggio oltre che comprensibile deve essere anche corretto. Non pensi che spesso, in tv, quando si parla di immigrazione si utilizzano termini razzisti o che alimentano l’odio?
E’ così purtroppo. Se tu i migranti li chiami clandestini e non utilizzi il termine giusto, cioè profughi, compi un’operazione politica sbagliata. Stessa cosa se definisci “vu cumprà” i venditori abusivi. In questo caso è un’espressione palesemente razzista. Le parole sono importanti, sono pietre. Chi parla male pensa male e non ce lo possiamo permettere. Se parliamo di “rifugiati” restituiamo una dignità alla storia di tanta gente che non aveva alcuna intenzione di lasciare la propria casa e, con la valigia in mano incamminarsi verso un futuro incerto.
Non dimenticherò l’intervista rilasciata un mese fa da un bambino sul Corriere della Sera che con una semplice frase ha detto una verità straordinaria: “se non volete che veniamo qua, fermate la guerra a casa nostra”.


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