Il verdetto dell’Alta Corte di Giustizia inglese ha ritenuto insufficienti le garanzie sulla salvaguardia personale di Assange e sul futuro del processo fornite dagli Stati Uniti, che ha richiesto l’estradizione del giornalista australiano. La moglie Stella Moris si appella ai decisori statunitensi affinché lascino decadere il caso.
Un respiro di sollievo e la gioia dei sostenitori del fondatore di WikiLeaks: ora c’è più tempo. Julian Assange potrà presentare un nuovo ricorso contro l’estradizione negli Stati Uniti. Lo ha stabilito il 20 maggio la Royal Court of Justice della Gran Bretagna. I due giudici inglesi hanno reso nota la sentenza secondo la quale il 52enne giornalista australiano sarà in grado di contestare le garanzie offerte dagli Usa su come sarebbe il suo trattamento in un carcere americano e si potrà avvalere del diritto di libertà di parola. L’accusa per lui è di aver divulgato nel 2010, attraverso l’organizzazione WikiLeaks, segreti militari, che – secondo la procura – hanno messo in pericolo vite umane. Un’imputazione ancora tutta da dimostrare.
Gli avvocati difensori, che si sono abbracciati in aula, avranno adesso diversi mesi per contestare le accuse mosse contro Julian. Sostengono che il suo è un ‘caso politico’ e come tale va trattato e va rispettato dal tribunale americano il suo diritto di parola in quanto cittadino australiano. Da oltre 5 anni Assange si trova in una prigione londinese di massima sicurezza: Belmarsh, detta anche la Guantanamo britannica, in regime di isolamento. Le cattive condizioni di salute del prigioniero non gli hanno permesso di partecipare all’udienza.
La moglie di Assange, Stella Moris, avvocata per i diritti umani, è uscita dall’edificio subito dopo la sentenza per annunciare la notizia alla folla di persone che si erano raccolte – col fiato sospeso – in attesa del verdetto. Lo scorso lunedì la donna aveva dichiarato alla Bbc che questo sarebbe stato un giorno “decisivo” nella lunghissima battaglia legale intrapresa per la sua salvezza. I giudici hanno “preso la decisione giusta – ha dichiarato – Come famiglia siamo sollevati, ma fino a quando si potrà andare avanti così?”.
“Gli Stati Uniti – ha poi proseguito – dovrebbero rinunciare subito al caso. È il momento di farlo. Abbandonare questo vergognoso attacco ai giornalisti e alla stampa, che va avanti da 14 anni. Questo caso sta facendo pagare un tributo enorme a Julian. L’amministrazione Biden avrebbe dovuto abbandonarlo fin dal primo giorno”. Quindi, lancia un appello a coloro “che negli Usa hanno il potere di prendere una decisione: per favore abbandonate questo procedimento, adesso. Non lasciate che questa vicenda vada avanti ancora a lungo”.
Se processato per i 18 capi d’imputazione che gli sono stati attribuiti, il giornalista rischia infatti una condanna fino a 175 anni di carcere secondo l’Espionage Act, e le condizioni in cui attualmente è trattenuto sono state definite come “assimilabili alla tortura” da ben due relatori dell’Onu. Questa vecchia legge del 1917 è stata rispolverata in America anche nel caso della whistleblower Chelsea Manning.
Nel dibattimento di primo grado la possibilità di presentare un ultimo appello non era stata concessa al giornalista australiano, per il quale l’Alta Corte britannica chiede ora che – in caso di estradizione – possa usufruire delle garanzie di tutela offerte dal Primo Emendamento, come qualsiasi altro cittadino degli Stati Uniti, oltre a escludere l’eventualità che le accuse contro di lui arrivino a punizioni come la pena di morte. Sono questi i due punti fondamentali dei sei sollevati in precedenza dagli avvocati di Assange, che adesso i giudici inglesi hanno accettato.
Altro tempo per Assange: al via il ricorso in appello contro l’estradizione