Il primo ministro britannico, Rishi Sunak, ha definito nientemeno che “storica” la legge da lui fortemente voluta e che consentirà -corti nazionali e forse internazionali permettendo- di “trasferire” (così dice il linguaggio “politcally correct”, che non consente di usare il termine “deportare”) in Ruanda i richiedenti asilo giunti illegalmente nel Regno Unito. Sarebbe interessante conoscere le vie legali per giungere nel Regno. La storicità di questa idea, espressamente criticata dall’Onu oltre che dalle corti britannica ed europea, effettivamente c’è. Londra, una città così importante per la storia del colonialismo ma anche per quella del liberalismo politico, ufficializza il nuovo conflitto: diritti umani o sovranismo – populismo?
La questione è ormai centrale in tutto il mondo “occidentale” (che cosa sia l’Occidente è altro discorso) e non solo. Il Ruanda – che ha conosciuto una lunga stagione coloniale belga e poi l’amministrazione straordinaria dell’ONU- sa bene cosa sia la rivalità etnica e la storia del genocidio ruandese lo conferma nel peggiore dei modi. Ora per Londra il Ruanda sarebbe un paese campione nell’integrazione e certamente sicuro. Ma proprio il Regno Unito nel 2021 aveva richiamato l’attenzione dell’ONU sulle gravi violazioni dei diritti umani, l’arbitrio e casi di tortura nel paese africano. Difficile che le condizioni siano repentinamente cambiate, tanto che nel 2022 Boris Johnson poteva assicurare, aprendo la strada a Sunak, che si tratta di un Paese-faro per l’integrazione e il rispetto dei singoli. Tanto un faro da meritare un investimento iniziale di 120 milioni di sterline per finanziare ipotetiche opportunità per immigrati e ruandesi. Chissà se sapremo anche le “rate successive” a quanto ammonterebbero o ammonteranno. Ma al di là dei problemi e dei pagamenti al Ruanda, il problema è come gestire la guerra tra diritti umani e sovranismo-populismo. Da questo conflitto dipende una bella fetta del nostro futuro. Il tentativo di mobilitazione sui diritti umani “inesistenti” dei migranti, richiedenti asilo, rifugiati e altri riguarda un tema talmente grave che alcuni Paesi europei starebbero addirittura pensando di riallacciare relazioni diplomatiche con il regime di Bashar al-Assad in cambio di un suo impegno a frenare i richiedenti asilo. Dopo aver deportato all’estero 10 milioni di siriani cosa possa fare Assad per frenare i suoi connazionali sgraditi lo sanno solo loro. Riaccoglierli in patria? Sarebbe come condannarsi a morte, per i deportati che non potranno mai credere che il regime, anche se lo promettesse, possa cambiare. Il fronte “globale” dei diritti umani, soprattutto davanti alle devastanti guerre in corso, non può essere dimenticato né ridotto. La differenza di trattamento tra di loro da parte dei governi europei è una ferita nella ferita. Ma il punto decisivo per non fare di questo confronto un luogo ideologico tra chi difende gli altri e chi difende se stesso (non è così) è quello di potenziare la mobilitazione per il rispetto dei diritti umani nei Paesi di cittadinanza. Diritto di parola, diritto al dissenso, diritto all’assistenza sanitaria, diritto al lavoro degnamente retribuito, diritto al decoro urbano, sono tutte tematiche che vanno ricondotte al campo proprio del movimento per i diritti umani perché è così e anche per evitare che una guerra tra poveri sostituisca il confronto. Non ci sono i globalità contro i località, ci sono visioni diverse della persona e dei suoi diritti.
La forza del sovranismo – populismo sta proprio nella contrapposizione tra “autoctoni” e “stranieri”. Questa narrativa, non suffragata da fatti oggettivi, potrebbe essere contrastata con i dati oggettivi e con l’evidenza dei fatti economici e della considerazione elementare che vivere tra tiranni ladri e persecutori non è il miglior viatico per il proprio futuro. Ma questo discorso non riuscirebbe a fare presa sulle emotività profonde che portano verso il sovranismo e il populismo. L’assunzione di una difesa dei diritti umani degli “autoctoni” da parte di chi difende i diritti umani dei migranti per necessità è forse l’arma politica che può cambiare il racconto. I diritti non si possono proporre a fette o fettine, rilanciare una grande mobilitazione sull’immiserimento delle popolazioni autoctone, la loro perdita di welfare e tutele per altre scelte economiche inafferenti al dramma migratorio spiegherebbe che non c’è contrapposizione, ma un campo in favore dei diritti di tutti.