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Perché, a settantasette anni dalla morte, Mussolini non muore?

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Mentre mi accingevo a concludere questa inchiesta che mescola analisi storiche e cronache attualissime, questa indagine che investiga a tutto tondo la pervasività di un mito cucito addosso agli italiani perché in fondo a loro assomiglia, quello di Mussolini, la guerra – «l’ora delle decisioni irrevocabili» – ha rioccupato l’Europa, ridando corpo ad archetipi e fantasmi. Putin – che ha attaccato l’Ucraina con il pretesto di «de- nazificare» un Paese che ritiene essere guidato da «una banda di drogati e nazisti» – è in realtà come Hitler. No, è come Stalin. Quella ucraina è la stessa nostra resistenza partigiana, bisogna sostenerla. No, gli uni e gli altri sono nazionalismi, non sono la nostra battaglia, non inviamo armi, noi siamo veri pacifisti. Putin ha le sue ragioni, la NATO lo ha accerchiato. No, Putin è solo un dittatore criminale, fermiamolo o si prenderà anche altri Paesi. Ucraini arrendetevi. No, ucraini combattete e salvate anche la vecchia Europa. Quel che appare certo è che dietro il cinismo armato russo, e alla sua propaganda orwelliana, emerge il grande disegno di un leader autocratico: testare i limiti del proprio potere non tanto per concretizzare il vecchio sogno dell’impero zarista, ma per dimostrare che una forma di potere alternativa a quella malattia morale che ha corrotto l’Europa e gli Stati Uniti – la democrazia – non solo esiste ma è pure vincente, ed è la sua.

Ha senso quindi parlare oggi di fascismo? Se sì, che forma ha? Di cosa si tratta? Ha senso proprio perché idee e forme di potere che insidiano i princìpi delle democrazie soffiano ancora – verrebbe da dire, oggi un po’ più di ieri. E perché le stesse democrazie vivono da tempo una profonda crisi di senso e di consenso partecipato. I leader nazionalisti con cui si fanno affari e che dettano regole, il vento delle dottrine sovraniste, l’erosione dei diritti, il collasso della partecipazione elettorale, le crisi energetiche, i mercati interconnessi, le paure spalancate dalla globalizzazione, le migrazioni umane, il bisogno di identità non come auto affermazione ma come protezione, determinano il tempo in cui si preferisce cedere pezzetti di libertà in cambio di sicurezza, vera o presunta che sia. E allora riemerge pure una tentazione sempiterna: credere a chi spiega la complessità del mondo in modo semplice, e semplicistico, a chi offre soluzioni risolute e nette. All’uomo forte.

L’Italia, poi, è un Paese in cui i fantasmi del passato fantasmi non sono mai davvero. In cui la fine dell’URSS e i crolli dei muri hanno ucciso partiti, creato crisi ideologiche mai più risolte e certe ideologie le hanno addirittura rinverdite. In cui la democrazia e la rappresentatività un po’ alla volta sono parse nel concreto avventura troppo complessa da vivere fino in fondo, perché richiedono impegno quotidiano e capacità, voglia di confronto e mediazione. In cui il populismo ha avvolto sia le vecchie idee reazionarie che molta sinistra, fino al punto di far coincidere gli opposti. Un Paese capace di grandi slanci e genialità, ma in cui il trasformismo è da sempre moneta solidissima, e il conformismo e l’idolatria immarcescibili convitati di pietra. In cui la rimozione più che l’autocritica appare la cifra del convivere civile.

Se Mussolini è diventato mainstream, se a più riprese si tenta di ripristinare da Nord a Sud la «toponomastica originaria», ovvero quella fascista, se sui social anche chi è nato sul crinale del nuovo millennio occhieggia al Ventennio o ne condivide la retorica e i simboli, se movimenti e gruppi prima marginali ora attaccano frontalmente organizzazioni e istituzioni o si mescolano a chi si candida a governarle, è perché, con tutta evidenza, a settantasette anni dalla liberazione, di Mussolini ancora non ci si libera. Non ci si può o non ci si vuole liberare. Questo libro, senza partigianerie, senza conformismi, senza sconti, prova a spiegare perché. Se anche non ci fosse riuscito fino in fondo, avrà dato comunque buoni spunti.


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