Ottant’anni senza Marc Bloch, assassinato dai nazisti nella Francia occupata del ’44. Cinquant’anni dalla Rivoluzione dei garofani che, in Portogallo, pose fine all’Estado Novo di Salazar e Caetano. E il senso delle nostre sconfitte, delle nostre ribellioni mancate, dei nostri drammi passati e presenti, della nostra mancanza di futuro. Ci pervade una sensazione di sconfitta collettiva, un disappunto corale, una tristezza che brucia l’anima e rende impossibile guardare al domani con serenità. Non sappiamo più né cosa siamo né chi vogliamo essere. Non abbiamo il coraggio di fare i conti con noi stessi e con la nostra storia. Non siamo più in grado di guardarci negli occhi e prenderci per mano, al punto che la società è ormai sfibrata, priva di modelli e punti di riferimento. In tanta malora, ci teniamo a ricordare tre anniversari importanti. In questo aprile del 2024, mentre è al governo gente che non ha mai fatto, né intende fare, i conti con la propria biografia politica, celebriamo tre anniversari fondamentali per la nostra storia. Ricordiamo, infatti, due straordinarie donne di sinistra: la partigiana Lidia Menapace, proveniente dal mondo cattolico, una vita spesa interamente in nome della sinistra e dei suoi ideali, da subito vicina al gruppo del Manifesto, di cui fu animatrice e instancabile punto di riferimento, e Rossana Rossanda, che di quel gruppo fu il motore, l’anima, la fonte d’ispirazione e il baluardo, fino all’ultimo giorno, senza mai mollare, senza mai arrendersi, fornendoci una visione complessiva he guardava lontano e non si stancava di portare avanti un messaggio di fratellanza universale.
Lidia ha animato il femminismo, il pacifismo e innumerevoli lotte in nome dei diritti umani e della dignità della persona. Rossana è stata la coscienza critica della sinistra sessantottina, l’alternativa alle chiusure e agli errori del PCI, compreso ahinoi quello berlingueriano, una voce attiva e coraggiosa che aveva capito per tempo cosa significassero i fatti di Parigi e di Praga e quali conseguenze avrebbe avuto per la nostra parte politica un orrore come quello cileno. Non a caso, in quegli anni, i suoi scritti, graffianti e sempre in direzione ostinata e contraria, hanno forgiato una generazione. Fu lei, infatti, a intervistare Allende due anni prima del colpo di Stato di Pinochet; fu lei a confrontarsi da pari a pari con Gabriel García Márquez, quando ogni suo libro veniva accolto, in Europa, come una scintilla, un elemento innovativo, una finestra aperta su un universo per noi ignoto e, per questo, estremamente affascinante; fu lei a temere i contatti con Sartre e con tutta la galassia parigina dei Nouveaux philosophes; e fu sempre lei, infine, a interrogarsi, prima e meglio di tanti altri, sulle conseguenze di una globalizzazione dissennata, tracciando un bilancio agrodolce del Novecento che andava concludendosi e fornendoci uno sguardo lucidissimo sul nuovo secolo e sulle sfide che ci attendevano. Non era affatto una “ragazza del secolo scorao”, come pure si definì in un capolavoro letterario, ma una protagonista di due secoli, sempre battagliera, indomita, pronta a battersi con tutte le sue forze per affermare un’idea di sinistra che l’89, e in particolare la sua pessima gestione da parte delle forze sedicenti “progressiste”, aveva sostanzialmente mandato in soffitta ma che il tracollo di un modello economico e di sviluppo assolutamente insostenibile ha riportato al centro del dibattito a livello globale.
È a donne come loro che dobbiamo molto di ciò che siamo e di ciò che potremmo ancora essere. È a donne come loro che dedichiamo questo 25 aprile di indignazione e di speranza. È a donne come loro che pensiamo quando guardiamo al di là dei nostri confini nazionali e ci spingiamo fino in Portogallo, dove un’altra donna, Celeste Caeiro, oggi novantunenne, regalò dei garofani ai soldati che stavano portando a compimento la deposizione del regime (l’Estado novo di Salazar prima e Caetano poi) che per oltre quarant’anni aveva schiacciato il Paese, condannandolo a una miseria e a un’arretratezza devastanti. È l’altro 25 aprile, quello che ci aprì gli occhi sullabisso del colonialismo e ci indusse, in quel decennio di mobilitazione e passione popolare, a schierarci dalla parte dei popoli africani che ancora non si erano affrancati dall’oppressione di dominatori ormai fuori dalla realtà. Per questo, la generazione che all’epoca aveva vent’anni scese in piazza per l’Angola, dopo aver sostenuto le mobilitazioni contro gli ultimi rantoli del regime franchista in Spagna e le sue esecuzioni per mezzo della garrota e dopo aver condannato, senza se e senza ma, ogni forma di nuovo imperialismo. Per questo, a distanza di mezzo secolo, guardiamo la Penisola iberica, le cui condizioni politiche sono assai migliori delle nostre, con la stessa ammirazione con cui loro studiavano la sinistra italiana quando era all’avanguardia rispetto al resto d’Europa.
Vien da piangere se pensiamo che di tutto questo sia rimasto poco o nulla, che quasi nessuno rifletta più sull’analisi storica lungimirante di Bloch, che la sinistra di casa nostra abbia smarrito la bussola e che si vada avanti a suon di errori strategici, atti di miopia e arroganza e divisioni che agevolano unicamente la peggior destra di sempre. Eppure, questo è il tempo che ci è dato vivere. Non abbiamo saputo far tesoro della lezione della storia e ne paghiamo amaramente le conseguenze. Ciò, tuttavia, non significa che ribellarsi, manifestare e gridare contro il fascismo sia sbagliato. Anzi, oggi più che mai, riprendendo Calamandrei, ci sentiamo di esclamare: ora e sempre Resistenza!
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