Anton Pavlovič Čechov, nato a Taganrog, in Ucraina, sulla sponda nord-orientale del mar d’Azov, nel 1860 e morto di tisi a Badenweiler, in Germania, nel 1904, fu novelliere e drammaturgo tra i più importanti della seconda metà del XIX secolo, uno scrittore che “può stare alla pari con quanto vi è di più forte e di più alto nella letteratura europea” (Thomas Mann). Di umili origini (il nonno paterno era stato servo della gleba), poté tuttavia studiare e laurearsi in medicina, pur senza poi esercitare la professione salvo che in effimere parentesi e per mero spirito umanitario, a beneficio dei contadini più poveri o durante l’epidemia di colera del 1892. Cominciò fin da giovane a scrivere novelle, forse più per alleviare le ristrettezze economiche familiari che per autentica vocazione: la sua prima pubblicazione in volume, Racconti variopinti (1886), incontrò l’immediato favore del pubblico. Degno erede di una tradizione profondamente radicata nella madre patria russa (Puškin, Turgenev, Gogol’, Dostoevskij…), seppe però aprirsi, di più e meglio di altri, a correnti moderne. Nei suoi numerosi racconti (fra i più belli mai scritti) e nelle opere teatrali più importanti (Il gabbiano, Zio Vanja, Tre sorelle e Il giardino dei ciliegi) è contenuta una rappresentazione disincantata, crudele e insieme partecipe, della vicenda umana. Come osservò a suo tempo Lev Tolstoj, a cui era legato da salda amicizia: “Čechov ha una sua propria forma, al pari degli impressionisti. L’artista spalma i colori come se non operasse neppure una scelta, così come gli capitano sotto mano e come se le pennellate non avessero nessun rapporto l’una con l’altra. Ma ci si allontani un po’, si osservi di nuovo l’esito e se ne ricaverà un’impressione generale ammirevole: davanti a noi sorge un quadro di indiscutibile chiarezza.”
Nelle situazioni comuni, prevalentemente quotidiane, illustrate nelle novelle e nelle commedie – non di rado storie di fallimenti – si compenetrano sempre meglio nel corso della sua carriera letteraria l’aspetto comico, caricaturale che caratterizzava gli esordi (Paolo Villaggio per es. si è dichiaratamente ispirato al brevissimo racconto La morte dell’impiegato per l’invenzione del personaggio di Fantozzi) con quello più propriamente drammatico, che emerge sempre più netto negli anni della maturità. Lo stile dei testi čechoviani è essenziale, pudico, scevro da orpelli formali; la loro risonanza è tutta interiore, profonda e potente come poche altre.
In Zio Vanja, la cui prima rappresentazione si tenne a Mosca nel 1899, si esprime forse più compiutamente che in altre pièces la strenua Weltanschauung čechoviana. Nella sua serrata esilità, la vicenda è emblematica: per anni l’irreprensibile e generoso Vanja, che conduce vita appartata e monotona, si è prodigato a gestire al meglio, insieme alla nipote Sonja, attraverso economie e un duro lavoro quotidiano, una tenuta di proprietà di quest’ultima, spedendone regolarmente il ricavato allo stimato professor Serebrjakov, preteso esperto d’arte, del quale Sonja è figlia di primo letto e che entrambi idolatrano come un grand’uomo. All’aprirsi del sipario lo studioso, ormai in pensione, è venuto ad abitare nella tenuta insieme alla bellissima seconda moglie Elena, di lui molto più giovane. Vi si trova da abbastanza tempo perché Vanja abbia imparato a conoscerlo, maturando la amara conclusione, in dolorosa sconfessione dei sacrifici di un’intera vita, che il cognato sia in realtà uomo dappoco, borioso e insulso: un accademico del tutto privo di genio che si limita a rimasticare idee altrui, un venditore di aria fritta come tanti, “un vecchio pedante, uno stoccafisso sapiente”. Serebrjakov è ossessivamente ammalato di podagra (non sa quasi parlare d’altro) e si annoia a morte lontano dalla città nella quale non può più permettersi di abitare. Per ovviare a questa situazione, frustrante per lui abituato alle luci, alla vita mondana, alle avventurette galanti e ai dubbi onori della metropoli, avanza al resto della famiglia una proposta offensiva e avventata nel suo ingenuo, trasparente egoismo. Il medico Astrov, che frequenta la casa con assiduità, e per il quale Sonja ha (da sei anni!) una fortissima inclinazione, e lo zio di quest’ultima Vanja sono entrambi innamorati di Elena. Tutti i nodi, passando attraverso trepide confessioni, velleitari scoppi di rabbia, acide recriminazioni, dialoghi avvelenati ed eloquenti silenzi vengono drammaticamente e inevitabilmente al pettine nel finale del dramma; i personaggi saranno chiamati, uno a uno, a un serrato e impietoso confronto con la verità lungamente elusa e a un bilancio fallimentare della propria vita. Saranno perfino sparati, fuori scena, un paio di maldestri colpi di rivoltella, ai quali seguirà – come suole fra persone civili e ragionevoli – una tiepida riconciliazione finale: verificata l’insostenibilità della loro presenza, il professore ed Elena ripartono, diretti a Kharkiv, Sonja e Vanja riassumeranno la conduzione della tenuta inviandone i proventi a Serebrjakov e consorte, Astrov per un po’ – forse per sempre – non si farà presumibilmente vedere. “Certo, tutto tornerà come prima, ma qualcosa di irreparabile è successo, niente sarà come una volta, non c’è più rifugio nel passato né riparo al danno arrecato, e forse niente sarà mai più come dovrebbe essere: neanche più sperare è possibile” (Gerardo Guerrieri). Vanja dice a Serebrjakov: “Riceverai regolarmente quello che hai sempre ricevuto. Sarà tutto come una volta.” Tutto, è vero, ritorna com’era prima del crollo delle illusioni, ma tutto nell’animo dei protagonisti è mutato per sempre. Nel memorabile struggente monologo finale di Sonja regna finalmente una matura, consapevole rassegnazione.
Vanja e Astrov sono spiriti per certi versi affini: non a caso diventeranno rivali. Entrambi cercano, senza riuscirvi, di attribuire un senso alla loro vita; il dottore si distingue semmai per un maggior grado di consapevolezza; deposta ogni residua speranza, pur mantenendo l’altruismo che ancora esige la deontologia professionale, non coltiva più affetti privati, è diventato col tempo un acuto e cinico osservatore del mondo esterno e all’occorrenza non disdegna di denunciarne crudamente gli aspetti più sgradevoli, per es. la mendacità del candore di Elena che ostenta di voler rendere un servigio amoroso all’onesta e infelice Sonja o le infondate patetiche aspirazioni alla felicità di Vanja, che manca del suo virile stoicismo. Astrov non disapproverebbe nemmeno il suicidio di Vanja – da tutti paventato – a patto però che si cacciasse dignitosamente una pallottola in fronte nel bosco attiguo e non lo attuasse assumendo morfina da una boccetta sottratta di nascosto a lui.
Elena (archetipico richiamo alla moglie di Menelao, il cui rapimento provocò lo scoppio della guerra di Troia?) rappresenta la cartina al tornasole di tante sgradite verità: al suo cospetto, la bruttezza di Sonja risalta ancora più impietosamente; Vanja innamorato avverte d’un tratto tutto il peso dei suoi quarantasette anni sprecati; lo stesso disincantato Astrov è posto di fronte alla sterilità del suo quotidiano barcamenarsi fra pazienti sperduti nelle campagne russe e dei suoi stucchevoli ideali ambientalisti. “La comparsa di Elena mette in luce lo squallore della loro vita, i loro difetti, accende i desideri di una vita diversa, di quel che sarebbe potuto essere e non è stato, e comunica loro il senso di un’indegnità, di una felicità lontana dalle possibilità terrestri” (Maurice Valency). Elena e il marito si abbattono sulla tenuta e sulle poche esili certezze che ancora sorreggevano i suoi residenti come una catastrofe; con la sua inconsulta proposta Serebrjakov le assesta il colpo fatale. Poco importa che la coppia parta poi subito per Kharkiv, per non tornare mai più; la sua è stata un’apparizione rivelatrice, un richiamo prepotente alla verità.
La commedia, nella versione del regista Leonardo Lidi, è stata rappresentata con discreta affluenza e ottimo successo di pubblico al Teatro Maggiore di Verbania nella sera del 7 aprile, seconda tappa della trilogia ‘Progetto Čechov’, prodotta dal Teatro Stabile dell’Umbria, comprendente anche Il gabbiano e destinata a concludersi con Il giardino dei ciliegi, in programma per la prossima estate.
La scena, scarna ed essenziale, di Nicolas Bovey, è ridotta intenzionalmente ai minimi termini, quasi asfittica, come a voler negare anche visivamente qualsiasi tridimensionalità ai personaggi che la occupano; è sospesa su una pedana in legno chiusa sul fondo da un’altissima parete in assi di betulla davanti alla quale è fissata una lunga panca su cui, in certi passaggi, possono sedere affiancati tutti i personaggi contemporaneamente. Del tutto assente la mobilia, non ci sono porte, gli attori entrano in scena da dietro la parete in legno e ne escono per la stessa via.
I costumi di Aurora Damanti sono coloratissimi, sgargianti, quasi circensi, vagamente ispirati ai nostri anni Cinquanta, Sessanta e Settanta: probabilmente nelle intenzioni della regia alludono alla vuota, buffonesca interiorità delle esistenze dei personaggi.
La rappresentazione ricalca fedelmente il testo di Čechov, per quanto i dialoghi confluiscano in un atto unico della durata di 1h 45’ ca., soluzione felice che elude il rito, superfluo e stucchevole in questo contesto, dell’alzarsi e riabbassarsi del sipario e conferisce alla commedia un ritmo incalzante.
Oltre che nell’abbigliamento e nella scenografia, come testé accennato, anche nella gestualità e nell’impostazione delle voci tutto sembra discostarsi sensibilmente dall’interpretazione tradizionale (un po’ troppo facile e ovvia?) della pièce.
Fin dalla sua prima entrata in scena Vanja (Massimiliano Speziani), clownesco e funambolico, arranca penosamente, strascicando a terra un piede dal quale a più riprese si sfila beffardamente la scarpa, prima di stramazzare al suolo e di restarvi per un bel pezzo, come estraneo a tutto; Astrov (Mario Pirrello), sopraffatto dall’inconsueto ozio che gli è ispirato dall’amore per la bella Elena (Ilaria Falini), assume volgari tratti gigioneschi. In genere i dialoghi sono convulsi, la recitazione degli attori contratta e frenetica: l’allestimento rispecchia esemplarmente l’enorme potere che si concentra nelle mani degli attori, dello scenografo, del costumista, oltre che ovviamente del regista, coordinatore del tutto, in grado di conferire un senso ‘nuovo’ e diverso a una commedia senza virtualmente modificarne una battuta.
Non mancano, qua e là, grevi sottolineature: il professore che, da seduto, prima si cala i pantaloni fino all’altezza delle ginocchia, poi, più avanti, si solleva un po’ le mutande per osservarne, costernato, il contenuto (qualche sghignazzata riecheggia in platea: un modo per avvicinare il pubblico al teatro?); la prolissa denuncia della dissennata deforestazione nella quale trova espressione il paleo-ambientalismo di Astrov viene ridicolizzata dalla proiezione sulla parete di betulla di disegni infantili, quasi a suggerirne l’intrinseca fatuità (era questo il senso che Čechov attribuiva alla prolissa tirata ecologista del dottore? – ovviamente niente ci autorizza ad escluderlo); i due spari sono accompagnati – un po’ troppo – significativamente dalle note di ‘Ridi pagliaccio’ (dalla celebre aria Vesti la giubba, tratta dai Pagliacci del Leoncavallo) e sono seguiti da risate gregarie inarrestabili, disarticolate, trascinanti, contagiose e insulse come quelle che risuonano in tante scadenti sitcom televisive; l’interminabile bacio fra Elena e Astrov, che prosegue anche sotto lo sguardo, più imbarazzato che iroso, di Serebrjakov; il monologo conclusivo di Sonja nel quale il tradizionale tono rassegnato si alterna ad accessi improvvisi d’ira.
Il cast è perfettamente all’altezza; tutti bravi gli attori, che dimostrano una scaltrita duttilità nel passare da un registro all’altro, assecondando in questo le intenzioni della regia.
Massimiliano Speziani accentua i tratti patetici di zio Vanja, impegnato in una velleitaria, tardiva, infantile rivolta contro la crudeltà del destino, della quale in fondo è lui stesso il principale responsabile; a Mario Pirrello è offerta l’opportunità di un’interpretazione di istrionismo controllato nel ruolo di un personaggio complesso e contraddittorio, alter ego dell’autore (lo suggerirebbe se non altro per la professione esercitata); Ilaria Falini rende al meglio un’Elena pigra e indolente, aliena da ogni complessità, a disagio e algida nell’atmosfera malata dell’ambiente della tenuta, che le riesce così estranea, eppure lusingata dall’interesse che suscita negli uomini e scossa ancora da qualche non contenuto, elementare sussulto passionale per Astrov.
Ottimi anche tutti gli altri interpreti: Giuliana Vigogna (una Sonja innamorata senza speranza ma sempre combattiva, estremo sostegno dello zio Vanja nelle sue travagliate traversie esistenziali), Maurizio Cardillo (un Serebrjakov limitato e meschino a dispetto della fama di illustre studioso d’arte), Francesca Mazza (la concreta anziana bambinaia Marina, da tutti amata e rispettata., incarnazione stessa dell’inscalfibile saggezza popolare), Angela Malfitano (Mar’ja, madre di Vanja e della prima moglie di Serebrjakov, irriducibile ammiratrice e sostenitrice di quest’ultimo, anche contro ogni evidenza contraria), Giordano Agrusta (il pletorico ingenuo Telegin, l’ex proprietario caduto in miseria, ma ancora ospite fisso della tenuta). Per concludere, Tino Rossi è il guardiano, che non pronuncia nemmeno una parola e non risponde neanche quando è interpellato, e che nel finale impersona la scialba e triste proiezione di uno Zio Vanja invecchiato.
La rappresentazione, che si segue con piacere e interesse, è stata salutata al calar del sipario dagli scroscianti e convinti applausi del pubblico, che ha non poco apprezzato l’indiscutibile valentia degli interpreti; resta – azzardiamo – un pizzico di perplessità davanti a certe forzature didascaliche, che denunciano un’interpretazione a senso unico della commedia, la cui complessità risulta in qualche misura sacrificata, e una tendenziale sfiducia nella capacità del pubblico di cogliere il senso di un capolavoro come Zio Vanja in assenza di esplicite sottolineature. In particolare, persiste a mente fredda l’impressione che, laddove Čechov descrive la condizione umana in termini sì fortemente amari e realistici, ma pur sempre sentimentalmente partecipi, e soprattutto in forma di pura rappresentazione, quindi in assenza di qualsiasi giudizio, nel presente allestimento si sia inteso accentuare l’aspetto farsesco, nella rinuncia, certo deliberata e consapevole, a qualsiasi universalità di ‘significato’.
Ogni tanto, nel corso dello spettacolo, uno Scottish Terrier nero, mite e gradevole apparizione (non prevista dal testo originale), attraversa quietamente la scena, osservatore distaccato e forse un po’ malinconico delle vicende umane e delle loro grottesche implicazioni.
Zio Vanja di Čechov al Teatro Maggiore di Verbania
Regia Leonardo Lidi
Con Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Ilaria Falini, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna
Scene e luci Nicolas Bovey
Costumi Aurora Damanti
Suono Franco Visioli
Produzione Teatro Stabile dell’Umbria, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Spoleto Festival Dei Due Mondi
Le frustrazioni avvelenate di Čechov. “Zio Vanja” al Maggiore di Verbania