I giornalisti che raccontano abusi, corruzione, mafia e, in generale, il ‘potere’ in apparenza ‘lecito’, sia dal fronte interno che internazionale, sono sempre più oggetto di cause per diffamazione, spesso basate sul nulla, con richieste di risarcimenti esorbitanti. Quando sei freelance il peso di tali azioni pretestuose può essere insopprimibile.
I querelanti non rischiano sostanzialmente nulla, se non le spese iniziali per l’avvio del procedimento legale, mentre i reporter che non hanno alle spalle un editore perdono energie e soldi per provare a difendersi.
Personalmente combatto contro un’azione giudiziaria pretestuosa da ben 26 anni, iniziata quando da giornalista di provincia mi occupavo di cronaca.Fui tra i primi giornalisti a raccontare, nel 1998, di un’inchiesta su un giro di aborti illegali in Campania. Un caso che aveva coinvolto l’allora presidente del Tribunale amministrativo regionale di Salerno e personaggi di spicco della ‘società bene’ salernitana. Sulla base di quanto riportato sull’ordinanza di custodia cautelare, che aveva tra i principali imputati i ginecologi e le persone che facevano da tramite con le donne che dovevano abortire illegalmente, avevo scritto che il giudice, pur non essendo direttamente coinvolto nell’inchiesta, era indagato con l’accusa di peculato per avere portato con l’auto di servizio l’amante ad abortire nello studio del suo migliore amico, il ginecologo che teneva in piedi il giro di aborti clandestini. Tutto documentato dagli investigatori e riscontrabile dalle intercettazioni. La persona in questione non mi ha perdonata di aver espresso la considerazione che “una personalità di primo piano della Salerno bene, una toga importante, fosse stata irrimediabilmente sporcata dal fango di un’inchiesta che prometteva di riservare ulteriori sorprese”, e mi ha querelata, facendo riportare integralmente questa frase, non il resto dell’articolo che entrava nel merito dell’impostazione a lui contestata, nel dispositivo della denuncia.
Da allora mi trascino come un fardello questa azione giudiziaria con intenti intimidatori, con l’azione penale all’inizio, e, oggi, punitivi ed economici con la richiesta di un risarcimento di migliaia di euro in sede civile. Nella prima fase, la vicenda si era chiusa con l’archiviazione. Ma lui, non contento del danno che mi aveva già arrecato, mi ha citata per danni. E non finisce qui.
Alla sua morte, i familiari hanno avocato il procedimento in giudizio civile, sicché la causa va avanti e, visto che il giornale per cui avevo scritto l’inchiesta era nel frattempo stato chiuso, sono rimasta la sola a pagare, sia economicamente che umanamente.
VIvo ormai da decenni con questa spada di Damocle sulla testa semplicemente per aver esercitato il mio diritto di cronaca, solo per aver fatto il mio mestiere.
Nonostante il peso di questa vicenda non ho mai smesso di interpretare la professione, che ho scelto più di trent’anni fa, con la determinazione di sempre e nel rispetto della deontologia e dei miei diritti.
Nel caso dei giornalisti colpiti da querele pretestuose – e in Italia si parla di migliaia di casi ogni anno – l’appoggio dei colleghi e del mondo dei media è fondamentale.
La solidarietà consiste nel ripubblicare le inchieste contestate e messe alla gogna e nel continuare a seguire le vicende che le hanno ispirate.
Purtroppo accade spesso che chi viene colpito da azioni temerarie, con il chiaro intento di sminuire la portata delle notizie, subisca una vera e propria delegittimazione nei contesti in cui opera.
L’unico modo per far sì che il collega non venga isolato è quello di rilanciare il suo lavoro, di seguire quelle inchieste, di non lasciarlo solo.
La scorta mediatica è tanto più importante nel caso dei freelance, che non hanno una testata o un editore chiamati a rispondere “in solido”, e quindi costretti a sostenere da soli il lungo e costoso iter processuale delle cause per diffamazione, che solo in primo grado nel penale vanno dai due ai sei anni.
Per chi svolge la professione da autonomo, e dunque da precario, vive una condizione di debolezza che rende meno liberi.
Pur essendomi ritrovata dopo 20 anni di articolo 1 a essere una rappresentante di questo tipo di giornalismo, ormai purtroppo sempre più dilagante, non ho mai voluto limitare il mio raggio di azione. Da freelance decido di lavorare su un argomento per poi proporlo alle testate che ritengo possano essere interessate. Purtroppo i compensi non sono più quelli di una volta, di gran lunga inferiori rispetto a qualche anno, ma almeno per la sottoscritta dignitosi.
Molti altri, soprattutto i più giovani, sono meno fortunati.
Pagati a volte pochi euro a pezzo, pur di lavorare sono costretti ad accettare condizioni umilianti. Ed è a loro, soprattutto a loro, che penso quando i provvedimenti per difendere il lavoro degli operatori dell’informazione vengono ostacolati o rinviati.
In Italia, e in tutta Europa, sono tenuti in ostaggio dalle querele pretestuose decine di migliaia di giornalisti, più di cinquemila solo nel inostro Paese. Gli attacchi non arrivano sempre e solo dai politici, come si può immaginare. Ma anche da ambienti della criminalità organizzata, quella dei ‘colletti bianchi’, che non usano le armi per silenziare i cronisti scomodi ma non esitano ad avviare cause milionarie. Basta avere un avvocato compiacente che compila un atto credibile.
Quella delle querele temerarie è ormai una pratica molto diffusa per cui negli anni la Federazione della stanpa ha tentato di promuovere iniziative e proposte per trovare una soluzione, un freno al dilagare del fenomeno dal puro intento censorio. Sembrava che finalmente, con il disegno di legge del senatore Primo Di Nicola, che prima di essere parlamentare è stato giornalista, si fosse trovata la formula giusta. Una norma che operasse come deterrente e scoraggiasse questo abuso della giustizia.
Inasprire le leggi e prevedere conseguenze economiche per chi intenta cause senza una base giuridica solida è l’unico modo concreto di fermare questa odiosa pratica.
Se intenti una ‘lite temeraria’ con una querela bavaglio per cercare di bloccare l’attività di un giornalista, chiedendo danni per centinaia.di migliaia di euro, se perdi in giudizio paghi non solo le spese ma anche il 50% di quello che avevi chiesto.
Purtroppo, questo che era l’impianto del testo presentato dal senatore Di Nicola, che aveva recepito le indicazioni e i suggerimenti del sindacato dei giornalisti per arrivare a un disegno di legge equilibrato, è stato notevolmente ridimensionato,
La proposta a prima firma del parlamentare del Movimento 5 Stelle, che proponeva di aggiungere all’articolo 96 del Codice di procedura civile la previsione della cosiddetta “responsabilità aggravata civile” per sanzionare la malafede di chi abusando dello strumento della querela aveva altre mire, dopo un lungo esame in Commissione giustizia è stata fermata a Palazzo Madama e nel frattempo la Legislatura è finita.
Le probabilità che si ponga davvero un freno a quello che lo stesso Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti ha definito “un’emergenza democratica” sono alquanto scarse.
Eppure le querele temerarie minacciano non solo la libertà dei media e la libertà di espressione, ma anche l’accesso all’informazione stessa, lo stato di diritto e la democrazia, che si basa su “cani da guardia” liberi di esprimersi e di chiedere conto delle proprie azioni a chi detiene il potere.
Temo, tuttavia, che se questo impegno comporti sistematicamente cause costose che richiedono tempo, energie e denaro per poter essere affrontate, in tanti, soprattutto i colleghi freelance, sceglieranno di rimanere silenti