Il mito preserva, ma trasfigura le personalità di cui si impadronisce. Così è accaduto anche a una delle figure più amate del socialismo italiano, Giacomo Matteotti. Divenuto in Italia e all’estero «simbolo dell’antifascismo – scrisse di lui Carlo Rosselli – e dell’eroismo antifascista, in qualsiasi riunione si faccia il suo nome il pubblico balza in piedi e applaude». Durante il ventennio fascista fu oggetto di una sorta di culto laico clandestino da parte di tanti italiani, socialisti e non, in suo nome volontari antifascisti combatterono per la repubblica spagnola nel 1936 e, ancora, a suo nome s’intitolarono le formazioni partigiane attive in Veneto, Emilia e Lombardia tra il 1943 e il 1945, con un organico valutato al momento della Liberazione in circa 20.000 unità.
L’epilogo tragico, tuttavia, ascrivendo Matteotti al canone dei martiri-eroi dell’antifascismo ha finito per metterne in ombra il percorso esistenziale ricco di esperienze e d’intenso impegno politico, tanto che, ancora a cento anni dalla sua uccisione, più d’uno studioso oggi avverte la necessità di ritornare a studiare il pensiero e l’azione di questo intellettuale italiano e europeo per poterne intendere appieno l’eredità e l’attualità.
Rinunciando perciò a leggere la storia di Matteotti a ritroso, Federico Fornaro, nel suo Giacomo Matteotti. L’Italia migliore (Torino, Bollati Boringhieri 2024), ha scelto di ripercorrere la sua biografia a partire da alcune chiavi di lettura significative. Anzitutto il legame profondo, mai smentito, con il Polesine, terra d’origine di questo «disertore di classe», per usare le parole di Fornaro, ossia la comprensione che Matteotti, possidente agiato in quel contesto di miseria e ingiustizia sociale, ebbe dell’urgenza imprescindibile di un cambiamento radicale. Quando Matteotti si autodefinì «riformista ma rivoluzionario» intendeva proprio riferirsi all’emancipazione dalla povertà da attuarsi attraverso profonde riforme di struttura, nonché con l’offerta di istruzione e sanità pubblica, in una delle aree rurali più disperate d’Italia, vero laboratorio sperimentale del socialismo riformista.
Proprio a proposito di riforme e riformismo incrociamo un’altra istanza interpretativa che attraversa tutto il volume. Matteotti incarna una temperie di riformismo combattivo, concreto e intransigente che Fornaro vuole riconquistare alla storia del nostro paese, sottraendola a una visione riduttiva, ancora oggi invalsa. Il riformismo di Matteotti, stroncato dall’ala massimalista del partito e poi dallo stesso Gramsci dalle file del PCd’I – ricordiamone la definizione drastica di Matteotti «pellegrino del nulla», è un patrimonio di idee e di energia morale che va storiograficamente valorizzato e attualizzato, sia per il suo concreto pragmatismo, sostanziato di competenze giuridiche, amministrative e finanziarie, sia per la sua fede nella democrazia.
Fu il riformismo perseguito con rigore da Matteotti che gli impedì di cedere a due distorsioni prospettiche nell’analisi dei suoi tempi. Da un lato, il suo pacifismo non conobbe infatti nessun cedimento nell’avversione per la guerra, osteggiata come calamità devastante soprattutto per i più deboli, anche quando nel suo stesso partito si affacciarono tendenze “patriottiche”. Dall’altro lato, il fondatore del Psu restò estraneo e critico di fronte all’infatuazione rivoluzionaria che, nel primo dopoguerra, travolse gran parte del socialismo italiano all’insegna del «fare come in Russia», coltivando invece la convinzione che non si potessero importare modelli palingenetici dall’estero, non esistessero scorciatoie per il progresso sociale e convenisse unire, non dividere le forze della sinistra.
Secondo Fornaro fu tale estraneità al mito rivoluzionario sovietico che gli consentì di non sottovalutare, ma cogliere da subito con lucidità la natura eversiva e intrinsecamente violenta del fascismo, da lui ben analizzato nella fattispecie agraria del suo Polesine. Alla luce di tale precoce comprensione Matteotti divenne fautore di una tattica di opposizione frontale al fascismo, e appunto perciò fu individuato da Mussolini e dai fascisti come un antagonista pericoloso, un avversario indomito da mettere a tacere.
Pacifismo, riformismo, antifascismo, democrazia: tutte queste linee del pensiero di Matteotti vanno completate con l’attributo “intransigente” e Fornaro le ripercorre e spiega, padroneggiando la sterminata bibliografia accumulatasi nell’ultimo cinquantennio – sia la memorialistica che gli studi di Stefano Caretti e l’edizione in 13 volumi delle opere di Matteotti – , ma grazie anche a qualche incursione archivistica rivelatrice, ad esempio nei verbali della Giunta delle elezioni del 1924.
Circola nelle pagine di Fornaro la tensione a fare di Matteotti un maestro e un interprete efficace anche per il nostro presente almeno sotto due aspetti, di metodo e di contenuto. Come non condividere il consenso che Fornaro esprime per il metodo di lavoro di Matteotti, fatto di scrupolosa adesione ai fatti e di antiretorica? Vero incubo degli amministratori dei comuni socialisti, da lui severamente controllati nei bilanci e nei progetti, perché si commisurassero bisogni e risorse, Matteotti applicò lo stesso rigore analitico alle scelte finanziarie e politiche del governo fascista, denunciandone le falle, registrandone con scrupolo di cronista la strategia di efferata violenza, smontandone punto per punto l’autorappresentazione menzognera. Quanto ai contenuti, Fornaro ricostruisce nell’ultimo capitolo la “sfortuna” politica di Matteotti nella storia della Repubblica e del socialismo italiano, almeno fino al rilancio della sua eredità voluto negli anni Settanta da Sandro Pertini. Un’eredità di riformismo coraggioso, di spirito unitario e di proiezione verso l’Europa che ancora attende di essere appieno inscritta nel nostro presente. Così come i conti con il fascismo, affrontati intrepidamente da Matteotti fino alla morte, vanno sottratti all’insidia di un revisionismo compiacente, oggi deciso a edulcorare la realtà storica di una dittatura violenta, totalitaria, bellicista