Non c’è dubbio che, con L’Espresso prima e con Repubblica poi, Eugenio Scalfari abbia rivoluzionato il panorama editoriale italiano. Del resto, come ha raccontato lui stesso in un memoir intitolato “La sera andavamo in Via Veneto”, le sue due grandi creature sono figlie di quel gruppo di liberali, radicali ante-litteram ma saldamente collocati nel centro-sinistra, che hanno spesso anticipato le svolte e le tendenze riformiste del Paese.
Non tutto di Scalfari mi ha convinto, sia chiaro: talvolta, specie negli ultimi tempi, alcune sue posizioni facevo fatica a capirle. Fatto sta che stiamo parlando di un gigante, la cui scomparsa, nel luglio del 2022, ha lasciato un vuoto incolmabile nel giornalismo italiano. È vero, abbiamo utilizzato spesso quest’espressione, al punto che ci è venuto persino il sospetto di averne abusato. Non nel suo caso, però, dato che ha avuto il merito di forgiare un pensiero politico alternativo rivelatosi, nel corso dei decenni, un lievito prezioso per la crescita culturale e lo sviluppo dell’Italia.
Nato a Latina, esattamente un secolo fa, in gioventù era stato fascista, tradito come molti altri dalla mancanza di conoscenza. Del resto, tutta quella generazione è vissuta e si è formata in un’Italia povera, ignorante, arretrata e tenuta sotto controllo da un regime pervasivo, capace di mettere la mordacchia all’informazione e di trasformarla in un formidabile strumento di propaganda. La presa di coscienza sarebbe avvenuta, dunque, dopo, nel pieno della maturità, anche grazie all’amicizia, indimenticabile, con Italo Calvino, conosciuto sui banchi di scuola a Sanremo, e successivamente con l’arrivo a Roma e l’immersione nel clima di rinnovata speranza e vitalità intellettuale che segnarono gli anni della Dolce vita e della democrazia nella sua fase migliore. Nacque così quel gruppo che, grazie al sostegno di Adriano Olivetti e, soprattutto, del principe Carlo Caracciolo, con L’Espresso sarebbe stato artefice di un’autentica rivoluzione. Furono i primi, ad esempio, a rendere giornalisti i grandi scrittori; furono i primi a compiere inchieste straordinarie; furono i primi e i più efficaci nel denunciare la corruzione a vari livelli, i ritardi del Sud e, pochi anni dopo, il tentativo di golpe dell’estate del ’64, il famigerato “tintinnar di sciabole”, l’affaire Sifar, svelato dalle penne coraggiose e acuminate dello stesso Scalfari e di Lino Jannuzzi; furono i primi, inoltre, a comprendere l’importanza della società civile, in una fase in cui ancora regnava il tutto della politica e c’erano partiti e sindacati forti, rappresentativi e degni di questo nome. Eppure, da soli, non potevano bastare a far compiere al Paese i passi avanti necessari, a cominciare dai diritti civili. Anche per questo L’Espresso si batté con raro vigore a favore del divorzio e dell’aborto, cogliendo l’evoluzione degli anni Settanta e narrando a meraviglia le aspirazioni di una generazione, quella dei figli del boom economico e del benessere, cui non bastava più soltanto il pane ma servivano anche le rose per essere felice. Cos’è stata, in fondo, Repubblica se non la figlia prediletta di quel decennio, la rappresentazione cartacea di una società evoluta, emancipata, più avanti rispetto alla classe politica, desiderosa di infrangere i vincoli di Jalta e di dar vita a una contrapposizione pienamente democratica, che non prevedesse più l’esclusione di un attore essenziale, il PCI, dagli incarichi di governo? E cos’è stata la battaglia contro il craxismo prima e il berlusconismo poi se non la rivendicazione di una laicità della cosa pubblica che non ammetteva incoronazioni, partiti personali, derive cesaristiche e tutto ciò che Scalfari ha denunciato, da par suo, per almeno tre decenni? Senza contare altre memorabili sfide: da quella contro Agnelli, definito “Avvocato di panna montata”, a quelle contro un sistema industriale ingessato e provinciale, una “razza padrona” senza visione né lungimiranza, senza apertura al mondo e alle volte senza il necessario senso del ridicolo.
Scalfari è stato, a modo suo, un Savonarola. Fare il guru, d’altronde, gli piaceva da matti: un po’ guida suprema e un po’ coscienza critica, un po’ castigarore col sorriso e un po’ fustigatore arcigno dei costumi nazionali.
Fu a lui che Moro consegnò le sue ultime, disperate riflessioni, un mese prima di essere rapito, sui rischi cui andava incontro una DC che stava gestendo lo sfascio del Paese, con la conseguenza, inevitabile, di affondare con esso: analisi premonitoria e di rara lucidità che avrebbe anticipato di un quindicennio Tangentopoli. E fu sempre a lui che Berlinguer consegnò riflessioni non meno amare sulla deriva del sistema politico, istituzionale e democratico, invocando una diversità comunista nella quale era rimasto, forse, il solo a credere davvero. Nell’ultimo decennio, persino papa Francesco gli ha affidato le sue parole profetiche, in un fecondo dialogo fra un ultra-laico e il capo della Chiesa cattolica sulle prospettive amare del nostro tempo.
Scalfari, a differenza di altri, ha sempre rivendicato di aver fondato un giornale-comunità, più che partito, e di aver dato voce a un’Italia diversa, in grado di prendersi per mano, di schierarsi in ogni circostanza, facendo pesare il proprio sano protagonismo, e di essere, al tempo stesso, progressista e dialogante, giacobina e liberale, azionista e refrattaria alle sirene di un potere sempre più corrotto e inservibile come strumento per migliorare la vita dei cittadini.
Cos’è rimasto oggi di tutto questo? Dov’è L’Espresso che da ragazzo imparavo quasi a memoria? E la Repubblica dei Bocca e dei Berselli? Che fine ha fatto il nostro mondo? Cosa ne è stato della nostra idea di giornalismo, cioè di vita, di società e di umanità?
Eugenio Scalfari si è portato nella tomba una storia lunga quasi un secolo. Per questo, oggi che fa cento, non riusciamo a celebrarlo come vorremmo. Della sua eredità, difatti, non certo per colpa sua, è rimasto ben poco, al punto che ci fa quasi piacere che si sia risparmiato un simile dolore.
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