BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

“Challengers”, Di Luca Guadagnino, Usa, 2024. Con Mike Faist, Josh O’Connor, Zendaya

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Due mondi paralleli che si incontrano e si intrecciano: il tennis e i sentimenti. La triade, formata da Patrick, Art e Tash, sempre molto pericolosa, almeno secondo la famosa teoria di Bowen, e tanto inscenata al cinema ( da Room a Barnet, da Truffaut a Bertolucci), stavolta si gioca tutto al terzo set. E a vincere è Guadagnino, che intreccia un racconto che non conosce pause, avvolto in un dialogo serrato e chiuso in immagini che trasudano verità nascoste. Come ne “I duellanti” di Ridley Scott, i due contendenti, qui armati di racchetta, si sfidano negli anni, incessantemente. La ragione di tutto è soltanto in apparenza una donna, Tash, in realtà Patrick e Art definiscono il loro io lungo un percorso che si dipana dentro i tortuosi sentieri della crescita e della relativa presa di coscienza. Come ne “Lo spaccone” di Robert Rossen, i due contendenti alla vittoria finale sono dominati per tre quarti del film da una figura altra, Tash appunto che, al pari del Bert Gordon (lo straordinario George C. Scott) del succitato famoso capolavoro con Paul Newman, manovra a proprio piacimento le due pedine ad uso e consumo del suo ego irrisolto. La diade maschile si ama, fors’anche inconsciamente, lo vediamo dall’incipit, ma è giovane e naturalmente antagonista e la terza arrivata lo sa bene. Sarà gioco facile per lei tenere sulla corda i due campioni della pallina e gli spettatori delle tribune e della platea. Ma c’è un qualcosa di ancora più importante del game, del set, o della partita, da vincere. Si chiama sentimento, che Guadagnino anima come dentro un grande acquario, in cui ognuno dei protagonisti si avvicina e si allontana dall’altro come gli atomi di una materia che pian piano prende forma. Tash è amante dominatrice, raffinatamente intelligente, una Gene Tierney degli anni Duemila, ma soprattutto allenatrice spietatamente ambiziosa perchè campionessa potenziale stroncata da un incidente di gioco. I due amici rivali ci metteranno tempo a capirlo, ma ci arriveranno.

L’amore si disvela non si cela, inevitabilmente, e l’autore muove la cinepresa come a voler entrare dentro i corpi dei suoi attori, giusto per evidenziare la smania di verità che li anima. Il film rimbalza da un flashback all’altro, come la pallina da una metà campo all’altra. L’uso del primo piano, spesso veicolato da un ralenti raramente così efficace, aiuta ad entrare nella ragione di tutti, sapendone cogliere inganni e debolezze rivelatrici. Rispetto alle sue precedenti opere, Guadagnino sembra essersi liberato da ogni remora, non ha paura di sfiorare la contraddizione quando questa serve ad evidenziare ciò che non può essere nascosto. I rapporti che animano questo film sono tutti complicati, fino allo stremo, ma solo la manipolazione è disumana e per questo destinata alla sconfitta. E’ come una rinuncia alla vita, anche quando quest’ultima si presenta a tutti noi più complicata e complessa di quanto non immaginavamo. L’immagine di Guadagnino è trasparente, consente allo spettatore di andare oltre la trama, anzi sembra sfidare lo spettatore a farlo. Davanti a una così composta messinscena si rimane come sorpresi da ogni nuova situazione, come una realtà che si contraddice davanti ai nostri occhi per poi ricomporsi quasi magicamente in una logica “umana”, anche laddove questa si mostri razionalmente incoerente. E’ grande cinema perchè non nasce dalle intenzioni, da teoremi da applicare in immagini, sgorga dalla visione stessa, fino a non poterla neanche più dominare. Come ogni uomo dinnanzi alle azioni, tutte, della propria vita. Uno sguardo improvviso, non calcolato, ci dice mille cose in più di un dialogo intenzionale. Ed è di sguardi improvvisi che questo film, questo cinema si nutre. Per la fortuna di noi spettatori.


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