L’atteso verdetto dei due giudici dell’Alta Corte del Regno Unito sulla richiesta del collegio di difesa del fondatore di WikiLeaks di poter svolgere l’appello contro la decisione di estradare negli Stati Uniti Assange ha aperto uno spiraglio nella vicenda.
Si rinvia al prossimo 20 maggio una scelta conclusiva su una materia incandescente, perché incombe oltre oceano una condanna che potrebbe arrivare a 175 anni da scontare in un penitenziario del Colorado.
La Corte britannica ha condizionato l’eventuale estradizione alla garanzia che gli Usa, nel frattempo, devono dare sulla possibilità che sia assicurata ad un cittadino australiano e non statunitense la tutela prevista dal primo emendamento della Costituzione di Washington sulla libertà di informazione; nonché sull’assenza nell’elenco delle misure previste del ricorso alla pena di morte.
Si potrebbe dire, dunque, che si tratta solo di un rinvio e che il resto delle accuse rimane intatto. Guai, certamente, a gridare vittoria.
Tuttavia, proprio il primo emendamento garantì dalle accuse del Dipartimento di Stato l’analista militare Daniel Ellsberg (recentemente defunto) che passò i Pentagon Papers al Washington Post e al New York Times. Le stesse testate implicate non ebbero conseguenze né penali né civili.
Insomma, un passo avanti va registrato. Ed è il frutto di una mobilitazione civile importante nata e cresciuta nei mesi passati, cui Articolo21 ha partecipato e partecipa con convinta passione.
La vittoria ci sarà quando Assange tornerà libero. Per ora rimane nel carcere speciale di Belmarshin condizioni psicofisiche molto precarie.
Vedremo. La storia è lunga, perché è una vera lotta di potere, tra autocrazie e diritto di cronaca. Assange è diventato il caso dei casi. E le lotte di potere sono sempre lunghe. Ma la tenacia e la resistenza possono riservare delle sorprese. Forse, il presidente uscente Biden non è interessato a entrare in una durissima campagna elettorale con un peccato mortale sulle spalle. Chissà.