Otto marzo. Slogan, dati, appuntamenti, allarmi e risultati della lotta verso la parità di genere.
Da domani poi si cadrà di schiena, as usual, sulla realtà. Amara. E lungi anni luce dall’evoluzione.
Basta pulire l’obiettivo aperto sulla realtà quotidiana, armarsi di grandangolo e con coraggio e onestà intellettuale fotografare. Impietosi.
Ed ecco che la nostra vicina di casa, la figlioccia, la ex compagna di banco, trova un lavoro e lo perde nel giro di una manciata di minuti sol perché ha deciso di sposarsi e alzare l’asticella di quel dato con segno meno, che racconta di un’Italia che non mette su famiglia, perché costa.
Una delle tante – sig! – storie di parità negata arriva da Lecce. Sovrapponibile a tante altre.
In sintesi: colloquio (discutibile ), contratto di lavoro da firmare e dietrofront dell’azienda poco dopo aver appreso che la futura dipendente è a un passo dal matrimonio, e magari vuol pure diventare madre.
Emanuela (nome di fantasia, ndr), poco più di trent’anni, percorso di studi brillante, due lauree in tasca ed esperienze lavorative accumulate, esame dopo esame, ha rotto la routine di un giorno qualunque con un messaggio vocale.
“Sono mortificata, incaxx…ata, imbarazzata”.
Parlava veloce, intrisa di agitazione, delusa come chi è già stata delusa più volte. Dopo una serie di contratti ed esperienze a tempo, si era rivolta ad un’agenzia interinale ed era stata contattata per una valutazione propedeutica ad una assunzione.
“Ho sostenuto due colloqui, per quella azienda. Domande su studi ed esperienze, non ho ritenuto di dire che in estate mi sposerò, perché si tratta di dettagli privati che non volevo condividere con estranei che peraltro a mio avviso non inficiano la capacità professionale di un lavoratore”.
A seguire la chiamata da parte dell’agenzia di riferimento, la buona notizia: contratto a tempo determinato, tre mesi rinnovabili.
“A quel punto – aggiunge Manuela -, ho spiegato all’interlocutore che alcuni mesi dopo la scadenza di quel primo contratto mi sarei sposata, consapevole della possibilità di mancare per qualche giorno, sempre che mi fosse stato rinnovato il contratto di partenza”.
E lì, dopo qualche giorno, la sorpresa. Neanche tanto tale.
“Sono stata ricontattata e: ci spiace ma quando hanno saputo che ti sposerai hanno deciso di non farti il contratto”. Sono disgustata, mi sento discriminata né mai vorrei lavorare in una realtà che ancora ogi valuta una possibile collaboratrice, anzi una donna, in questa maniera. Il lavoro vissuto come ricatto, come radiografia del proprio privato, la bellezza dell’amore e perché no della maternità non possono ancora essere ribaltati e fatti pesare”.
Termina lo sfogo, non l’amarezza. I messaggi vocali si susseguono, alla ricerca di un incoraggiamento, una parola,una ricetta – che non c’è – per sviluppare gli anticorpi giusti e andare avanti.
“Queste cose si devono sapere – confida la donna -, come si deve sapere che si sono anche, vivaddio, realtà evolute anche nel Salento, dove ci si ferma a curriculum e capacità”.