L’Atto in esame è, almeno formalmente, una correzione integrativa dello schema di decreto legislativo n.208 del 2021, con il quale fu esercitata la delega principale, inerente al testo unico dei servizi media audiovisivi (TUSMA). Si recepiva la direttiva 2018/1808/UE, che abrogava il decreto legislativo n.177 del 2005 (legge Gasparri). Una prima osservazione riguarda il perimetro dei cambiamenti, troppo piccolo e insieme troppo grande. Non sembri un paradosso. Da una parte, infatti, il vecchio articolato -con tutte le sue aporie- rimane più o meno com’era; dall’altro, alcuni allargamenti alle nuove opportunità di fruizione mediante aggiornati strumenti tecnologici rischiano di irrompere sui limiti della delega. Tutto ciò rimanda alla questione cruciale, vale a dire l’arretratezza della normativa in una materia completamente cambiata in un ventennio. Applicare qualche aggiunta “digitale” ad un contesto pensato in un’età analogica è impervio. Proprio il testo in esame ce lo dimostra. La questione principale da porre, dunque, ci interpella sull’urgenza di una disciplina che consideri l’ambiente digitale non la periferia, bensì il centro del sistema. Va rovesciato, insomma, l’ordine degli addendi. Se si entra nel merito del testo si possono fare, comunque, alcune osservazioni.
All’articolo 1, comma 4, pare davvero improprio il riferimento al contrasto della cosiddetta cancel culture, espressione di un’ondata certamente transeunte che non ha senso fissare in un concetto giuridico. Com’è noto, i ripensamenti diventano poi faticosi e generalmente praticabili in tempi non brevi. Tant’è che si deve ricorre ad un DLGS per novellare un altro DGLS. Inoltre, il comma 15 si riferisce alla legge n.66 del 2001 in merito ai trasferimenti di impianti, di rami di azienda o di intere emittenti radiofoniche analogiche da un concessionario ad un altro. Che senso ha evocare la categoria dei concessionari che non esistono più, peraltro portando scompiglio ed ulteriori elementi concentrativi in un comparto relativamente immune da simili tendenze.
Vi è, poi, al comma 33 la stabilizzazione del limite di affollamento per il servizio pubblico al6 per cento dal precedente 7 per cento tra le 6 e le 18, nonché tra le 18 e le 24, fermo restando il 12 per cento per ogni ora. Si tratta di un colpo non banale inferto ala Rai, che pure versa in condizioni economiche non favorevoli. Si potrebbe allargare il discorso all’aumento degli spot con un corrispondente abbassamento della qualità. In verità, il complesso della normativa sulla pubblicità meriterebbe una verifica, perché le interruzioni dei programmi con le inserzioni commerciali paiono spesso fuori controllo e le astute modalità di aggirare la legge nella trasmissione dei film richiedono una vigilanza ben più ferma. Ancora. Perché mai le emittenti televisive nazionali vengono sollevate dall’obbligo di trasmettere i comunicati degli organi pubblici?
Ancora. In materia di obblighi di investimento nella produzione di opere europee, ivi comprese le sotto quote, va rivista la modalità applicativa che -se diviene troppo elastica- vanifica lo spirito della legge madre, ovvero la n.122 del 1998. La lettura dell’articolato segnala, dunque, le assenze prima ancora delle presenze di dettaglio. Nel frattempo, tra l’altro, l’approccio europeo si è arricchito con l’European Media Freedom Act, in via di varo definitivo tra Bruxelles e Strasburgo. Si tratta di un testo che, almeno parzialmente, interviene sulle tematiche considerate dallo spettro dell’Atto del Governo 109.
*Vincenzo Vita è Garante dell’Associazione Articolo21