Non chiamiamola festa: abbiamo molto poco, ancora oggi, da festeggiare

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Oggi in Italia una donna vale meno di un uomo e basta poco per accorgersene. La sua vita vale di meno, i suoi sogni valgono di meno, la sua professionalità viene ancora troppo spesso considerata al di sotto, tanto da meritare un compenso inferiore, a parità di merito e ruolo, rispetto ai colleghi maschi. Le donne vengono giudicate, aggredite verbalmente, etichettate, messe a tacere, spesso non credute se subiscono violenza e messe a loro volta sotto esame come se fossero corresponsabili del reato subito e a volte – tante, troppe volte – uccise per moventi di natura proprietaria, ridotte a oggetto al pari di altri oggetti. La cultura patriarcale favorisce i maschi in una maniera ottusa e prevaricatrice. Ma, come ha dichiarato Elena Cecchettin, la sorella di Giulia: “Nessun uomo è buono se non fa nulla per smantellare la società che li privilegia tanto. È responsabilità degli uomini in questa società patriarcale, dato il loro privilegio e il loro potere, educare e richiamare amici e colleghi non appena sentano il minimo accenno di violenza sessista. Ditelo a quell’amico che controlla la propria ragazza, ditelo a quel collega che fa catcalling alle passanti, rendetevi ostili a comportamenti del genere accettati dalla società, che non sono altro che il preludio del femminicidio”.

Sappiamo che i femminicidi sono tutt’altro che eccezionali (circa il 30%) rispetto agli omicidi commessi nel nostro Paese e che costituiscono la stragrande maggioranza (82%) degli omicidi di donne. Ma la violenza di genere comprende un orizzonte molto più vasto, di cui il femminicidio è “solo” il culmine. Molestie, percosse, maltrattamenti, violenza psicologica, economica, persecuzioni, dinamiche di potere e di ricatto. Si tratta spesso di atti sommersi, che avvengono tra le mura domestiche e che per numerosi e comprensibili motivi – paura di ripercussioni, sfiducia nelle forze dell’ordine, dipendenza economica, timori per i figli – non vengono denunciati. Circa l’80% delle vittime dei cosiddetti “reati spia” è donna, cioè quei reati che costituiscono possibili indicatori di una violenza di genere, come gli atti persecutori (art. 612-bis c.p.), i maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.) e le violenze sessuali (art. 609-bis, 609-ter e 609-octies c.p.).
Chiaro oramai come le norme vigenti non bastino a sradicare un fenomeno strutturale – e non emergenziale- della società, e tutt’altro che in calo. Bisogna educare dentro e fuori dalle scuole, fare in modo che siano le giovani e i giovani i portatori di progresso culturale all’interno delle proprie famiglie. Perché la violenza di genere si può contrastare solo cambiando il paradigma sociale e culturale in cui è radicata, conseguenza della posizione sociale di inferiorità attribuita alla donna in tutte le sfere della sua vita. Per farlo serve una strategia a lungo termine, che miri a un cambiamento profondo, attraverso interventi formativi sul lavoro, negli spazi pubblici e soprattutto rivolti all’educazione nelle scuole: per insegnare a bambine e bambini, ragazze e ragazzi un approccio sano e rispettoso alle relazioni affettive e sessuali, così come gli strumenti necessari per proteggere se stessi e gli altri, nel segno progressista di una reale parità di genere. Si tratta di una sfida prima di tutto culturale, che certamente non si esaurisce con l’approvazione di una legge.
Nella giornata internazionale per i diritti delle donne, stridono i limiti dell’azione normativa e politica in Italia e in Europa nel contrasto di un fenomeno che è sempre più grave, come dimostrano anche i dati. Con la legge 77 del 2013 l’Italia ha ratificato la convenzione di Istanbul, facendo un primo passo concreto in termini normativi per il contrasto alla violenza sulle donne. Questo trattato internazionale introduce diversi standard che i paesi sono tenuti a raggiungere. Dalla prevenzione e condanna della violenza, alla protezione e al sostegno delle vittime. La convenzione richiede anche un impegno sulla raccolta di dati e informazioni riguardo il fenomeno. E invita a introdurre nelle scuole materiali didattici sui temi della parità di genere. Ma il quadro normativo sulla violenza di genere è frammentato. Alla ratifica della convenzione è seguita nel nostro paese l’adozione del decreto legge 93/2013, per implementarne gli interventi. L’atto in particolare ha introdotto lo strumento dei piani d’azione contro la violenza di genere. Finanziati dal fondo per le pari opportunità, questi piani triennali rappresentano la strategia nazionale sul tema. Oltre al potenziamento delle strutture di soccorso e supporto alle vittime, mirano alla formazione delle professionalità che possono entrare in contatto con episodi violenti. A questi interventi è seguita l’approvazione della legge 69/2019 (il cosiddetto “codice rosso”), che ha rafforzato le tutele processuali per le vittime, inasprito le pene previste per alcuni reati e ne ha inseriti di nuovi nel codice penale. Come il delitto di diffusione illecita di immagini e video sessualmente espliciti (il cosiddetto revenge porn). Con la successiva legge 134/2021, tutte le misure introdotte con questo atto sono state estese anche ai casi di violenza tentata. Per quanto diversi interventi possano essere valutati positivamente, nessuno di questi atti ha introdotto momenti educativi e formativi su affettività e sessualità, né dentro né fuori dalla scuola, fatta eccezione per specifiche professionalità. Non è stato colto neanche il suggerimento della convenzione di Istanbul di integrare nelle scuole materiali didattici sul tema. Tra gli interventi che si sono susseguiti negli anni, va considerata anche l’istituzione nelle ultime legislature di commissioni d’inchiesta su femminicidio e violenza di genere. Nella XVII e XVIII tale commissione era solo al senato, mentre dallo scorso 26 luglio è operativa per la prima volta una commissione bicamerale. Al momento è ancora troppo presto per valutarne l’operato. Le audizioni finora si sono concentrate solo su un piano conoscitivo e di ricognizione sul tema attraverso incontri e testimonianze esterne. Ma senza produzione di documenti, relazioni o proposte di legge. Guardando al passato invece, la commissione al Senato della XVIII legislatura ha proposto e portato ad approvazione la legge 53/2022. Un atto che ha introdotto nuove regole relative alla raccolta dei dati statistici sul fenomeno. In particolare, ha implementato obblighi di trasmissione dei dati su episodi di violenza di genere da parte di vari enti, incluse le strutture sanitarie pubbliche. E ha definito la raccolta di indicatori quali la relazione tra l’autore e la vittima di reato e la presenza dei servizi offerti dai centri antiviolenza e dalle case rifugio. L’ordinamento italiano non prevede misure volte a contrastare specificamente ed esclusivamente condotte violente verso le donne, né prevede specifiche aggravanti quando alcuni delitti abbiano la donna come vittima. Per il nostro diritto penale, se si esclude il delitto di mutilazioni genitali femminili, il genere della persona offesa dal reato non assume uno specifico rilievo, e conseguentemente non è stato fino a pochi anni fa censito nelle statistiche giudiziarie. E, nonostante la legge 53/2022, i dati a disposizione non sono ancora sufficienti per raccontare la violenza di genere in tutte le sue manifestazioni, denunciate e non. Né per superare i limiti della mancata definizione giuridica di femminicidio, ovvero l’omicidio di una donna in quanto tale, cioè per via del suo genere. Questa è la definizione data dalla commissione statistica delle Nazioni Unite e adottata da Istat: individuare precisamente tale fattispecie richiede numerose informazioni, riguardo la relazione tra vittima e autore (familiare, sentimentale, amicale, lavorativa), eventuali episodi violenti precedenti, le modalità e il contesto in cui ha avuto luogo l’uccisione e molto altro. Tutti aspetti che richiedono tempo per essere definiti e che passano attraverso indagini e processi. In Italia, non sono disponibili tutte queste informazioni, che solo in futuro si potranno rilevare grazie alla collaborazione inter-istituzionale con il Ministero dell’Interno. Tuttavia, già a partire dalle informazioni disponibili (relazione tra vittima e autore, movente, ambito dell’omicidio) è possibile delineare un primo quadro, tanto che l’indicatore che spesso si utilizza per inquadrare il fenomeno nel nostro Paese è il numero di omicidi di donne in ambito familiare o affettivo.
È evidente che la violenza di genere non sia affatto in calo. E questo è rappresentativo della necessità di invertire la direzione a livello normativo prima, per ottenere un cambiamento positivo a livello sociale e culturale poi. È necessario riconoscere che il fenomeno non è imputabile a casi isolati, dovuti a situazioni eccezionali di disagi psicologici o sociali. Va riconosciuto come strutturale e come tale la strategia di contrasto deve mirare a educare cittadine e cittadini, dentro e fuori le scuole e guardare a un orizzonte più ampio e di lungo termine. Dalla famiglia alla scuola, passando per le forze dell’ordine, assistenti sociali, magistrati e la comunità dei pari: tutti devono fare la loro parte per distruggere il sistema che alimenta la violenza contro le donne.
La questione è complessa, ma esistono delle soluzioni. In realtà molte di noi ne parlano da tempo e, pur senza la pretesa che i percorsi tracciati possano presto raggiungere un obiettivo che in questo momento di sconforto ci sembra lontanissimo, tuttavia abbiamo individuato dei capisaldi imprescindibili. Perché le cose devono cambiare: rassegnarsi significa siglare un nuovo consenso di fronte alle prossime condanne a morte. E allora, serve più assistenza, più ascolto, una rete infrangibile di solidarietà. Le forze dell’ordine dovrebbero avere più strumenti ed essere ulteriormente sensibilizzate, per lavorare in squadra con i centri antiviolenza, veri e propri avamposti, spesso su esclusiva base volontaria, di contrasto al fenomeno. Occorrono misure urgenti e serie, che vanno dall’utilizzo del braccialetto elettronico con intervento immediato delle forze dell’ordine qualora il divieto di avvicinamento venisse infranto, allo snellimento delle procedure della giustizia, al coordinamento tra le varie forze dispiegate al sostegno (anche economico) alle associazioni a tutela delle donne e i centri antiviolenza. Le donne minacciate vanno credute, accolte, e non vanno lasciate sole. Perché lasciarle sole equivale a condannarle a una trappola funesta.
E poi, combattiamo tutte e tutti insieme l’eredità patriarcale: è da lì che parte tutto e negarlo, come sentiamo spesso fare anche in trasmissioni radiotelevisive, è gran parte del problema. Si tratta di un lascito i cui tentacoli si estendono ovunque: dal dislivello occupazionale alla reificazione del corpo femminile, dalla svalutazione al gender gap e così via. Bisogna educare, insegnare la parità e per farlo occorre partire anche dai dettagli: come osserviamo, come percepiamo, come giudichiamo, come nominiamo le cose. Imparare ad usare le parole giuste, contrastare gli stereotipi, attuare la par condicio di genere e dunque educare alla parità. Togliere il tesserino da giornalista a chi scrive senza criterio titoli ambigui e destabilizzanti o utilizza formule che incitano alla colpevolizzazione delle vittime, ma anche mettere a tacere quei personaggi pubblici o quei politici che incentivano all’odio verso le donne: forse è chiedere troppo? Le parole giuste per raccontare la violenza contro le donne sono uno dei tanti passi da fare e che si possono e si devono fare. Il Manifesto di Venezia, promosso dalla Commissione Pari Opportunità della Federazione Nazionale della Stampa Italiana con altri sindacati e l’associazione Giulia giornaliste ha raccolto centinaia di adesioni, ma quel che più è importante ha messo l’informazione al centro della rivoluzione culturale che può contrastare la violenza sulle donne. Per un cambiamento antropologico e culturale occorre molto tempo, e allora quante ne vedremo cadere ancora? Nostre amiche, sorelle, figlie o anche semplici sconosciute per cui ci si serrerà ugualmente un nodo in gola. Per questo è importante che interveniamo subito, scuotendo un sistema malsano dalle fondamenta, con una presa di consapevolezza collettiva e con decisione, tenendoci per mano, decise e implacabili, fino a che non si fermerà questa tremenda strage. Tutte e tutti insieme per smantellare, bruciare, distruggere questa impalcatura culturale, arrugginita e mortifera, che ci impedisce di essere, ancora oggi, ciascuna e tutte, pienamente libere.


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