Si sta discutendo presso la Commissione trasporti, poste e telecomunicazioni della Camera dei deputati lo schema di decreto del Presidente del consiglio sull’alienazione di una quota – ora del Ministero dell’economia – nelle Poste Italiane Spa.
Il sindacato dei lavoratori delle comunicazioni (Slc) della Cgil ha preso una posizione assai critica. E ha decisamente ragione.
Già nella nota di aggiornamento del documento di programmazione economica (Nadef), il ministro Giorgetti aveva formalizzato l’orientamento dell’Esecutivo di mettere sul mercato una ulteriore parte delle quote azionarie. L’attuale composizione societaria dell’azienda è per il 35% della Cassa depositi e prestiti, per il 29,26% del Ministero dell’economia, per il 23,08% di investitori istituzionali, per l’11,85% in mano a investitori individuali, per il restante 0,82% alla casa madre medesima.
Attualmente, dunque, la maggioranza sta in capo alla cosa pubblica, in modo diretto o indiretto. Si affaccia, dunque, la possibilità che la componente di mercato prenda il sopravvento. Insomma, è partito il siluro di una scelta liberista esplicita, verosimilmente solo l’inizio di un percorso che non si fermerà con le scelte in arrivo.
Dagli inizi degli anni Novanta del secolo scorso vi sono state circa trenta privatizzazioni: qualcuna sorvegliata dal potere politico e negoziata con i soggetti forti interessati, dall’Eni all’Enel; qualcuna gestita con raro avventurismo, com’è il caso di Tim-Telecom, contestata sia dalle organizzazioni sindacali sia dalla Borsa; qualcuna ascrivibile alla categoria metapolitica e metaeconomica della stupidità. Parliamo delle Poste.
Senza offesa per le persone – come si usa dire – è lecito chiedersi che conti abbiano fatto nei piani alti del governo.
Come ben si spiega nella memoria approntata dal responsabile di settore della Slc Nicola Di Ceglie, privatizzando lo Stato ci perde piuttosto che guadagnare. Se si procedesse alla cessione – in ipotesi – dell’intera quota del Mef (29,26%), si incasserebbero circa 3,9 miliardi. Se la cifra fosse tutta investita per ridurre il debito pubblico, il taglio del debito (applicando il 4,7% di interesse) produrrebbe un risparmio annuo di circa 182 milioni. Ma solo quest’anno lo Stato medesimo ha incassato da Poste 248 milioni.
Per farla breve, quindi, oltre al danno si avrebbe la beffa. Se si agisce su una composita aggregazione come la citata Spa, non è come vendere un prodotto finito o un manufatto. Si è dentro la complessa dinamica del capitale finanziario, dove la vecchia struttura pre-riforma del 1997 naviga oggi con consumata perizia. Sono ben lontani i tempi n cui il cuore dell’attività era la corrispondenza, ora soppiantata dall’utilizzo di mail e messaggi.
Sono molto cresciuti i volumi dei pacchi, dove l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (cui spetta anche la vigilanza con apposita struttura sui servizi postali) ha messo gli occhi onde evitare forme di concorrenza sleale e di sfruttamento del lavoro. E, soprattutto, hanno avuto un vero e proprio salto di qualità le attività finanziarie, di gestione del risparmio e di fondi pensione, di offerta di contratti per la luce e il gas.
La straordinaria peculiarità dell’impresa sta nel radicamento territoriale, con oltre 12.755 uffici e una capillarità preziosissima: un tesoro enorme nell’età della rete e delle connessioni, che costituisce un ancoraggio sicuro nell’evoluzione delle tecniche. La rete postale, insomma, non è un nobile residuo del passato, bensì una piattaforma potenzialmente capace di contrastare l’egemonia degli oligarchi della rete.
Se da qui passasse, infatti, la costruzione di un’alternativa pubblica alle Big Tech e di centri diffusi di formazione e sostegno delle persone penalizzate dal digital devide.
Inoltre, per gli sportelli passano quotidianamente migliaia e migliaia di dati, dallo Spid in poi. Chi si gioverà di tale tessuto nervoso e sensibile della società? Ci sono davvero tanti motivi per dire no.
PS: che fine ha fatto il Contratto di servizio Stato- Rai? L’iter è finito, ma il testo è in un cassetto senza l’atto conclusivo. Gatta ci cova?
(da Il Manifesto)