Tratto dal romanzo di Martin Amis, il film racconta la vita del criminale nazista Rudof Hoss, primo “gestore” di Auschwitz, e della sua famiglia, vissuta in una villa attaccata alla fabbrica della morte. L’incipit, simile a quello de “Il bambino con il piagiama a righe”, ci mostra una famiglia felice e serena, indifferente all’orrore con cui conviveva, in una sorta di macabro parallelismo con il tragico fuoricampo. La prima mezz’ora ci regala, dunque, molte cose interessanti, sintetizzabili nel titolo della celebre opera di Hanna Arendt, “La banalità del male”. Esaurito questo primo momento davvero notevole, il film sembra perdersi nel ripetitivo e nell’incapacità emotiva di dare seguito a quanto di meglio fino ad allora ci aveva regalato. Certamente, qua e là non mancano i momenti importanti, come la sequenza dei fiori dai colori tanto sgargianti quanto terrificanti perchè mostrati in primissimo piano con in sottofondo le grida dantesche e i sordidi spari, accompagnati da una colonna sonora tanto agghiacciante quanto efficace, provenienti dal campo di concentramento. Come altrettanto efficaci, al limite dello sperimentalismo, sono le dissolvenze di diverse tonalità che Glazer inserisce nei momenti topici della tragica narrazione. E inquietante è l’inserimento dei turbamenti notturni della figlioletta di Hoss, frutto della lettura delle terrificanti fiabe dei fratelli Grimm fatta a lei dal padre, e metafora di un clima certamente non favorevole alla serenità di una bambina. Agghiacciante.
Grande è poi la sequenza, nel finale, che il regista britannico ambienta in un museo dell’Olocausto di oggi, con la massa dei vestiti e delle scarpe delle vittime esposte in asettiche vetrine, che mai potranno dare a chi le visita l’idea di ciò che veramente fu quell’abominio. Il tutto fortemente simboleggiato dalla lucidatura che gli addetti praticano sulle suddette esposizioni, così lontana dalla sporcizia cui i poveri condannati erano costretti durante la loro permanenza in quell’inferno sulla Terra. E qui torna in mente il capolavoro documentario del grande cineasta ucraino Sergei Loznitsa, “Austerlitz”, 2016, in cui si racconta dei tanti visitatori dei campi di sterminio distratti dai cellulari o dal consumo di cibo mentre passeggiano per gli antichi viali della morte, in una ennesima conferma dei tragici limiti della memoria e dell’onnipresente monito della Harendt. Insomma, il film di Glazer non manca di momenti intensi, che, purtroppo, da un certo punto in poi sono solo episodici. Ma, forse, anche soltanto questo basta per fare di quest’opera un appuntamento immancabile per ricordare cosa l’Uomo è stato capace di fare all’altro Uomo, suo simile. Dinnanzi a certi racconti la critica deve arrestarsi, e ancora di più in questi nostri giorni, per lasciare spazio a quanto possa servire a ricordare tragedie anche attuali, cui l’Occidente ricco e opulento continua a girare le spalle. In questo senso, il film di Glazer è una grande metafora di tutto ciò. Così, purtroppo, siamo dinnanzi ad un’opera storica soltanto in apparenza. La contemporaneità riuscirà, finalmente, a rendere meno banale il male?