Su Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, almeno da queste parti, è stato detto quasi tutto. Trent’anni, del resto, sono un tempo lungo, sufficiente per tirare le somme e compiere qualche riflessione di carattere generale. E allora non è tanto di loro che voglio occuparmi quanto di ciò che è diventato il giornalismo in questi tre decenni. Perché l’aspetto tristissimo è che il prossimo 20 marzo saranno giustamente celebrati, sarà reso loro omaggio, rivedremo qualche loro servizio, prenderemo atto di ciò che abbiamo perso con il loro assassinio in quel di Mogadiscio ma poi non cambierà nulla. Non in questa RAI, almeno. Fino a qualche anno fa, pensavo che in circostanze del genere non fosse opportuno sollevare polemiche; fatto sta che Ilaria e Miran non sono personaggi da santino. Non ne hanno mai fatti, non era nel loro stile; anzi, li detestavo proprio. E avrebbero detestato anche l’ipocrisia, il mettere la polvere sotto il tappeto, il nascondere le notizie, la falsità e l’acquiescenza di chi fa finta di non capire che la loro idea di giornalismo oggi non avrebbe cittadinanza. E non nel servizio pubblico, in generale. Il giornalismo che consuma le scuole delle scarpe, che va a vedere con i propri occhi, che si fa paladino degli ultimi e dei deboli, che restituisce dignità e prospettive agli sconfitti, che prende per mano le solitudini del mondo, il giornalismo che illumina le periferie dimenticate e porta le telecamere in quegli angoli reconditi che il potere vorrebbe che rimanessero tali, quel giornalismo lì oggi quasi non esiste. E, se permettete, questa disfatta, umana e professionale, costituisce a mio giudizio il loro secondo assassinio. Ricordarli degnamente, infatti, presupporrebbe seguirne l’esempio, recarsi nuovamente in Africa a testimoniare il cambiamento in atto, guardare negli occhi uomini, donne e bambini che fuggono dalla miseria e dalla guerra, seguirli lungo le tratte della morte che sono costretti ad affrontare a causa della nostra indifferenza, dire chiaramente all’Europa che o è la patria dei diritti o non è, farsi carico della sofferenza di chi è costretto a vendere tutto pur di inseguire un minimo di felicità e sapersi anche commuovere di fronte a tanto strazio. Non succede, se non in rari casi: gli ultimi brandelli della nostra professione, gli ultimi esempi di cronisti con un cuore grande e una mente pensante, le ultime oasi nel deserto di un’editoria sempre più autoreferenziale e abbandonata a se stessa, gli ultimi difensori dell’articolo 21 della Costituzione e del principio secondo cui a prevalere dev’essere il diritto della cittadinanza a essere informata. Per il resto, il buio.
Ilaria e Miran, dunque, li portiamo nel cuore anche per questo: ci obbligano a prendere atto della nostra rovina, ci costringono a pensare a quanto siamo diventati cinici, non ci consentono di dormire sonni tranquilli, mentre vediamo tutto ciò in cui abbiamo creduto e sperato andare in frantumi. Costituiscono, insomma, oggi più che mai, la nostra coscienza critica, i nostri punti di riferimento, la direzione verso cui tendere per tornare ad avere un ruolo nella società e ritrovare la credibilità perduta. Già, ma quanti ne avranno voglia? E, soprattutto, a quanti sarà consentito di farlo? In queste domande senza risposta, è racchiuso il nostro degrado nonché la sensazione, atroce, che del giornalismo, quello vero, quello per cui tuttora siamo qui a scrivere e a confrontarci con passione, sia rimasto poco o nulla.
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