Cento anni fa nasceva, in provincia di Venezia, Franco Basaglia, lo psichiatra che ha rivoluzionato per sempre non solo la medicina ma l’assetto socio-culturale del Paese. Prima di lui, infatti, gli ultimi, i fragili, i disperati e gli “sbagliati” in generale erano dei reietti: non avevano alcuna dignità, non erano considerati persone e, di conseguenza, non erano ritenuti degni di avere un domani. Venivano rinchiusi nei manicomi: luoghi spesso di tortura, fra soprusi e violenze, vessazioni, umiliazioni d’ogni sorta e nessuna attenzione al recupero di vite ritenute di scarto. Nulla doveva essere concesso a chi finiva in quegli inferni: questa era la mentalità corrente prima che si impegnasse, in prima persona, questo visionario che oggi portiamo in palmo di mano ma che all’epoca incontrò non poche difficoltà e venne considerato da molti un illuso, un utopista, a sua volta un mezzo pazzo. Diciamo che se esiste la legge che porta il suo nome, approvata il 13 maggio del ’78 e basata sull’abolizione dei manicomi, il merito è anche del servizio pubblico e, per l’esattezza, di un gigante di nome Sergio Zavoli. “I giardini di Abele”, difatti, resta un capolavoro giornalistico come ne sono stati realizzati pochi. Nel ’68, Zavoli si recò a Gorizia e, anche grazie alle testimonianze dei suoi pazienti, mostrò all’Italia l’umanità di un medico che non tollerava più la ferocia, la crudeltà gratuita e la sofferenza inflitta a chi già aveva la “colpa” di essere nato in condizioni difficili; non tollerava, in poche parole, uno Stato-Caino che si lavava le mani e la coscienza, sporchissime entrambe, gettando la polvere sotto il tappeto e confinando lo strazio in lager sui quali, per troppo tempo, quasi nessuno aveva avuto nulla da obiettare.
Basaglia era un uomo semplice e coraggiosissimo, un rivoluzionario mite, il simbolo di una resistenza colta alla barbarie, un precursore dei tempi e un ispiratore. Oggi, forse, non si comprende fino in fondo quanto sia stata innovativa la sua battaglia: ci sembra normale non vedere più i manicomi, quasi ci chiediamo come sia stato possibile che un tempo esistesse una vergogna del genere. Eppure, non solo esisteva ma veniva difesa a spada tratta da quanti si rifiutavano di comprendere l’intollerabilità di una pena aggiuntiva, comminata da una comunità escludente al fine di poter continuare a vivere nella propria apparente normalità, senza fare i conti con il malessere altrui.
Un giorno, forse, ci renderemo conto che le carceri non siano poi tanto dissimili dai manicomi, che la strada verso la civiltà sia ancora lunga e che le ingiustizie che incontriamo quotidianamente siano innumerevoli. Ci renderemo conto, insomma, che una società ferina, in cui vige la regola non scritta dell'”impiccalo più in alto”, sia quanto di più lontano possa esistere dalla nostra Costituzione. E capiremo che la vera normalità non sono i retrogradi ma personalità come Basaglia, capaci di guardare negli occhi l’abisso e di rifiutarsi di accettarlo. E magari la RAI tornerà a fare la RAI e vedremo all’opera un nuovo Sergio Zavoli, che si recherà a filmare la vita nei centri in cui sosteniamo di accogliere i migranti in fuga dalla miseria e dalla guerra, in realtà ghettizzandoli, nei penitenziari e in tutti quei luoghi che dovrebbero essere sostituiti da strutture ad hoc per prendersi cura di chi ha visto già abbastanza orrori, recuperare chi ha sbagliato e far compiere un passo avanti alla collettività. In attesa di tempi migliori, che tuttavia non sorgeranno mai se non avremo la forza di costruirli insieme, ci resta il ricordo di un galantuomo che seppe vedere nell’errore la speranza, nella solitudine la pienezza, nella follia la rinascita e nel tramonto l’alba, lui che, per fortuna, era matto per davvero, talmente matto da essere riuscito a rendere migliore e più giusta l’Italia senza chiedere niente in cambio.
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