Hanno ragione gli storici Mario Avagliano e Marco Palmieri quando definiscono l’eccidio delle Fosse Ardeatine la nostra Spoon River, l’episodio iconico della Resistenza, il momento di svolta, ciò che impedisce di dimenticarla.
Ottant’anni, ed è superfluo ricordare il contesto storico, benché importantissimo: il bombardamento alleato su Cassino (durante il quale venne distrutta l’Abbazia), l’attacco partigiano in via Rasella, ai danni del Polizei Regiment Bozen, la rappresaglia nazista, il ruolo esercitato dal questore Caruso, i dieci italiani fucilati per ogni tedesco, i cinque in più che vennero aggiunti alla lista, lo strazio di una città sotto assedio e senza nessuno a proteggerla, in preda alla furia di Kappler, dei soldati tedeschi e dei loro alleati fascisti e l’attesa, interminabile, dell’arrivo degli americani dopo lo sbarco ad Anzio il 22 gennaio del ’44. Concentriamoci, piuttosto, su ciò che quelle trecentotrentacinque vittime ci dicono. Perché nelle loro vicende personali è racchiusa davvero l’autobiografia della Nazione. E a noi torna in mente una frase che era solito ripetere Enzo Biagi: “Sono contento dell’umanità della mia gente, che si rivela quando le cose vanno male. Noi siamo un grande popolo nei momenti difficili”. Basti pensare che fra i morti delle Ardeatine c’erano tutti: comunisti, socialisti, liberali, il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, adolescenti, un sacerdote, don Pietro Pappagallo, e persino Aldo Finzi, che all’inizio era stato fra i fedelissimi di Mussolini ma si era definitivamente allontanato dal fascismo in seguito all’approvazione delle Leggi razziali e all’ingresso in guerra al fianco della Germania.
Pensiamo a un esempio di resistenza morale, prim’ancora che politica, come il professor Pilo Albertelli. Pensiamo alla famiglia Di Consiglio, sterminata per intero. O al tenore Nicola Stame. O a un altro straordinario intellettuale come Gioacchino Gesmundo. Infine, pensiamo a un carabiniere, Gianserico Fontana, simbolo di quell’eroismo in divisa di cui troppo spesso tendiamo a dimenticarci. Caddero sotto i colpi della furia nazista gli esponenti dell’Italia migliore, senza la quale sarebbe stato impossibile riscattarci dalla vergogna del fascismo e ricostruire la democrazia che abbiamo conosciuto in questi quasi otto decenni di pace e libertà.
Se abbiamo citato alcuni nomi è per aiutare in particolare i più giovani a comprendere che la Resistenza sia stata una questione di popolo, contrapposta all’oligarchia del Regime. La Resistenza, infatti, è stata più forte nelle borgate, nei quartieri sorti alla bell’e meglio durante i lavori per la costruzione dell’EUR, quando ebbe luogo un’autentica deportazione degli abitanti, sbattuti in aperta campagna e lasciati senza i servizi minimi per condurre un’esistenza dignitosa, e soprattutto al Quadraro, ribattezzato proprio da Kappler “nido di vespe” e punto di riferimento imprescindibile per una battaglia che coinvolse più che mai i deboli, gli ultimi, gli emarginati, i perseguitati, i poveri e tutti coloro che per vent’anni erano stati costretti a subire soprusi e vessazioni senza poter alzare la testa.
Calamandrei suggeriva ai ragazzi di recarsi là dove era nata la nostra Costituzione. Ebbene, riflettiamo sul fatto che non sia casuale che l’articolo 1 parli espressamente di lavoro e sovranità popolare, che l’articolo 3 parli di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, che l’articolo 5 parli di “Italia una e indivisibile” e che l’articolo 11 parli di ripudio della guerra come strumento di offesa nei confronti di altri popoli e di risoluzione delle controversie internazionali. Riflettiamoci perché oggi questi valori sono messi profondamente in discussione, diremmo quasi calpestati, il che costituisce uno sfregio intollerabile nei confronti di quei trecentotrentacinque martiri, uccisi dopo essere stati talvolta torturati in maniera atroce, ma anche un monito per il futuro che ci attende.
Essere anti-fascisti e contrari a ogni totalitarismo significa, difatti, contrastare la deriva cui stiamo assistendo con un’acquiescenza che non ci fa onore.
Ottant’anni. Per non dimenticare.
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