Uno di quei ragazzi è mio figlio. È quello con i capelli castani e la giacca a vento celeste che scappa dai manganelli e inciampa e finisce sotto le scarpe degli altri. No, mio figlio è quello biondo con il cappuccio della felpa abbassato sulla fronte, quello che mentre corre via si becca un colpo nella schiena, in mezzo alle scapole e si piega in due dal dolore. Nel gruppo dei ragazzi che manifestano c’è anche mia figlia, è quella con i riccioli che le sfiorano le spalle, erano neri ma ora sono rossi per il sangue che le cola dalla fronte, si guarda intorno stupefatta, non capisce che cosa stia succedendo, non riesce nemmeno a piangere. Più in là c’è anche tua figlia, la vedi? E tuo nipote, oppure l’amica di tuo nipote, il figlio di un tuo collega di lavoro. Tra i ragazzi che sono stati manganellati a Pisa e a Firenze nel corso di una manifestazione pacifica ci sono pure alcuni dei miei alunni, quelli a cui ho insegnato proprio l’altro giorno, durante l’ora di Educazione civica, che l’articolo 21 tutela la libertà di espressione.
Non sono pericolosi terroristi o estremisti armati fino ai denti, gli studenti pestati a Pisa e Firenze. Sono Arianna, Tommaso, Filippo, Pasquale e Martina. Oppure sono altri, con nomi diversi, ma simili a loro, sono ragazze e ragazzi scesi in piazza per manifestare un pensiero, per chiedere il cessate il fuoco. Sono quelli a cui abbiamo insegnato, fin da piccolini, le poesie sulla pace nel mondo, quelli a cui abbiamo assegnato i temini contro la guerra, a cui abbiamo fatto disegnare gli arcobaleni e le colombe. La violenza vigliacca scattata contro questi ragazzi non dunque è una questione di appartenenza politica: non si tratta di stabilire se la loro idea fosse giusta o sbagliata, se i ragazzi fossero di destra o di sinistra (ammesso che per loro queste parole abbiano ancora un senso). Non si schierino perciò solo i partiti, su questa storia, si schieri invece la società civile, quella che si riconosce in quella cara vecchia Carta che dal 1948 ci ricorda chi siamo e che nome abbiamo: Repubblica Democratica.
Si schierino i genitori, si schierino gli educatori, si schierino anche le forze dell’ordine, quelle che con il loro lavoro contribuiscono ogni giorno a inverare quegli articoli di legge e che dovrebbero essere addestrati proprio a gestire eventuali momenti di tensione; si schierino quei tanti che tra le forze dell’ordine non si riconoscono in quelle facce contratte dall’odio, in quelle braccia prestate alla violenza, in quell’indifferenza verso dei ragazzi inermi e spaventati. A meno che non siamo tutti d’accordo sul fatto che la nuova generazione non abbia diritto di parola, e che vada tacitata prima ancora che prenda le misure per stare nel mondo. A meno che non stiamo insegnando ai nostri ragazzi che chi parla, chi si espone pacificamente mosso da un principio o da un’idea faccia bene a ritirarsi, a starsene zitto e buono nel tinello di casa appeso al joystick di un videogioco piuttosto che in una strada con uno striscione in mano. Non c’era mio figlio, tra i ragazzi pestati a Pisa e a Firenze, e forse nemmeno il tuo, ma questo non ha nessunissima importanza. Importa invece che quelle manganellate, quel sangue sulla fronte, quei ragazzi distesi a terra e con la faccia premuta contro il marciapiede sono l’immagine di un fallimento umano e politico. Sono lo specchio di un dialogo tra generazioni che si interrompe, dei vecchi che non sono capaci di ascoltare le parole dei giovani, perché ascoltare è più faticoso, forse, che menare. E sono anche lo specchio di un fallimento politico da parte di chi agita manganelli reali e mediatici per ridurre il dissenso a rumore di fondo. Se chi governa ha così tanta paura dei ragazzi significa o che è molto debole o che le voci di quei ragazzini, in realtà, sono più forti di quanto possiamo immaginare. O magari tutte e due le cose.