Roberta Torre ha fatto un grande film sulla tenerezza, la ricerca della felicità, la gioia cercata e non trovata. La malattia, la progressiva perdita della memoria, è “solo” l’occasione per uno sguardo poetico sulla donna, l’essere al centro del mondo, l’unico capace di rappresentare in toto il genere umano. E per farlo al meglio la regista milanese si è inventata una delle trame più geniali degli ultimi 30 anni di cinema. L’identificazione della protagonista Monica (una stratosferica Alba Rohrwacher) con l’omonima attrice Monica Vitti, in particolare con i personaggi da questa interpretati nei film realizzati con il sommo Michelangelo Antonioni, “La notte”, “L’eclisse” e “Deserto rosso” (proprio da quest’ultimo è tratta l’ormai celebre frase che dà il titolo a questa opera). Non è una mera sovrapposizione imitativa quella di Torre, ma una vera e propria immersione nell’universo visivo antonioniano, capace di regalare allo spettatore momenti di grande magia visiva, uno sprofondarsi nei meandri dell’anima moltiplicati come in un gioco di specchi in grado di liberare emozioni allo stato puro. Il disagio identitario di Monica, calato in quello dei personaggi creati dal grande regista ferrarese, raddoppia il livello di efficacia dell’immagine, fino a farlo dirompere in soliloqui e dialoghi che arrivano dritti all’essenziale narrativo esistenziale. Ogni minimo sguardo delle due Monica si fonde l’uno nell’altro, come a voler fare giungere a chi guarda ogni variazione, anche la più impercettibile, degli stati d’animo che soltanto la sofferenza sa evidenziare in modo assoluto, in una dolorosa contraddizione della nostra debole natura. E non è certo un caso che Roberta Torre unisca alle immagini di Antonioni quelle di altri grandi film d’autore, assonanti con il tema da lei trattato, come lo straordinario “Quando l’occhio trema” di Paolo Gioli, o come “Limite” di Mario Peixoto e “Le tempestaire” di Jean Epstein, entrambi rievocanti certi momenti de “L’avventura”, prima celebre opera del duo Antonioni-Vitti. Nel suo percorso “reale”, il film sembra dovere tanto anche ad uno dei capolavori del grande John Cassavetes, “Una moglie”. E anche l’accostamento ai film di e con Alberto Sordi, sempre interpretati dalla grande attrice romana, da “Amore mio, aiutami” a “Polvere di stelle”, fino “Io so che tu sai che io so”, consente a Torre di raccontare la “commedia umana”, fatta di sorrisi che nascondono o esaltano tutto ciò che si nasconde nelle pieghe più profonde del nostro vivere quotidiano, il vero ring dove si combattono i più grandi match della fragile, e per questo commovente, condizione umana. Insomma, un film raro, sperimentale, coraggioso, e, diciamolo pure senza timore, anche necessariamente elitario, come capita, purtroppo, sempre più raramente di vederne, e non solo in Italia.