“Mare fuori”, la fortunatissima serie di Raidue, ambientata nell’Istituto Penale Minorile (IPM) di Napoli, è uno dei pochi successi di una RAI che sta drammaticamente rinnegando se stessa e la propria storia. E se questo miracolo si ripete di anno in anno, è perché, al pari di altre fiction, mette in evidenza un’altra idea di società, diametralmente opposta all’abisso di ferocia che viene propagandato a reti unificate in quest’evo politico e mediatico.
“Mare fuori” ha il volto del perdono e del riscatto, della comprensione e dell’accoglienza, dell’integrazione e del recupero: nulla a che vedere con la cattiveria gratuita di chi vorrebbe sempre buttare la chiave e negare ogni diritto, di chi difende a oltranza i manganellatori di ogni ordine e grado, che tanti danni arrecano alla Polizia di Stato, e di chi non esita a predicare l’innalzamento delle pene in ogni circostanza, in un’escalation di manettarismo che, purtroppo, non è cominciata oggi.
La politica tutta farebbe bene a interrogarsi sulle ragioni di questo trionfo di ascolti, specie se si considera che il cosiddetto “servizio pubblico” è stato addirittura in grado di consigliarne la visione al solo pubblico adulto e, per tutta risposta, si è trovato a dover fare i conti con milioni di adolescenti che praticamente non guardano altro.
“Mare fuori” ha il volto di Carmine, magistralmente interpretato da Massimiliano Caiazzo, figlio di una famiglia di camorristi, con una vita difficilissima alle spalle, eppure capace di ritrovarsi, di affidarsi ai consigli del “comandante” Massimo (Carmine Recano), di ripudiare le logiche criminali, di non accettare l’idea della vendetta e della giustizia fai-da-te e di rifarsi una vita, arrivando persino a innamorarsi di Rosa Ricci, una grande Maria Esposito, figlia del boss del clan rivale ed entrata in carcere con l’idea di vendicare il fratello Ciro, il cui omicidio è ufficialmente imputato a Carmine per legittima difesa (in realtà, era stato il “Chiattillo” per difendere l’amico minacciato di morte proprio da Ciro). Esalta l’amore che prevale sull’odio, la dolcezza che ha la meglio sulla follia, la criminalità sconfitta dalla cultura dell’incontro, la logica della riscossa e dell’attenzione verso il prossimo, l’idea che se anche uno solo di quei ragazzi e di quelle ragazze, grazie a un percorso di rieducazione, dovesse decidere di cambiare vita, sarebbe comunque una vittoria straordinaria: il messaggio è chiaro e va nella direzione opposta rispetto alla malvagità dilagante. E piace, dato da non sottovalutare, soprattutto ai giovani: gli stessi presi a manganellate quando scendono in piazza, irrisi di continuo e, per lo più, costretti ad abbandonare un Paese che non li rispetta, non ne riconosce il valore e si volta dall’altra parte quando esprimono le loro esigenze.
Non solo: viene messa in evidenza l’inutilità del carcere per la maggior parte dei reati, tanto che la maggior parte dei protagonisti della vicenda ritrova se stessa quando vive esperienze di lavoro, di inclusione e di recupero sociale, molto simili ai percorsi ideati, ad esempio, da don Claudio Burgio, seguendo il motto in base al quale “non esistono ragazzi cattivi”.
E così, troviamo i genitori che denunciano i figli per amore, per evitare loro di rovinarsi definitivamente la vita, gli educatori che assumono il ruolo di padri e madri per adolescenti che una famiglia non ce l’hanno mai avuta o, se ce l’hanno avuta, è stata devastante, le direttrici, prima Carolina Crescentini e poi Lucrezia Guidone, che partono algide e intrise di pregiudizi e si trasformano in figure amorevoli, e soprattutto loro, gli sbagliati, i reietti, gli ultimi della fila, gli scarti della società che rinascono e trovano nella musica, nell’amore, nel confronto, nel lavoro e in tutto ciò che compone le nostre esistenze la propria strada.
Fin dall’inizio, personaggi come il già citato Carmine e Cardiotrap ti prendono alla gola, perché sembrano usciti dalla penna di Zola, ponendoci di fronte a una riflessione intensa e doverosa su quanto il contesto in cui si nasce condizioni poi l’avvenire di ciascuno di noi. Eppure, proprio loro ci dicono anche che nessun destino è già scritto, che si può reagire alla violenza con la gentilezza, che si può sempre ricominciare, che si può guardare il mondo con altri occhi e che solo chi si arrende all’ineluttabilità della sorte è davvero perduto.
Al pari di “Un professore”, siamo insomma davanti a un altro sceneggiato che ci mostra il mondo come potrebbe e dovrebbe essere, in netto contrasto, come detto, sia col cattivismo imperante sia con la rassegnazione di quanti non credono più nella possibilità di un cambiamento profondo e radicale.
È per questo che qualunque protagonista di questa fortunata fiction, compresi quelli senza speranza, ci entra nel cuore e non se ne va più. Di fronte al fallimento, infatti, proviamo un senso di sconfitta che ci lascia l’amaro in bocca; di fronte a Carmine che abbraccia la figlia Futura, rinnega il proprio pesante cognome e prova a spiccare il volo, proviamo invece un senso di gioia quasi paterno, come se quel ragazzo “difettato” (sono parole sue) fosse figlio nostro, sicuramente emblema di una società che non offre a chiunque le stesse possibilità. Il suo sorriso, spontaneo e bellissimo, è anche il nostro, proprio come quello di Pino, che grazie alla passione per i cani capisce di poter dare qualcosa al mondo, di Kubra, che vive la sua riscossa studiando a più non posso, della zingara Naditza, che consente al “Chiattillo” Filippo di liberarsi della propria arroganza, e di Alina, in fuga dagli orrori della guerra in Ucraina.
“Mare fuori” scava un solco nelle nostre coscienze e ci ricorda che un altro mondo è possibile. E lo ricorda anche agli attuali vertici RAI, con l’auspicio che capiscano che un simile successo di critica e di pubblico è dovuto alle intuizioni di chi, prima di loro, ha compreso che accendere i riflettori su chi è nato indietro avrebbe consentito alla comunità nel suo insieme di compiere un passo avanti.
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