«Senza una mente politica» così si autorappresenta Natalia Ginzburg e così intitola un testo scritto probabilmente nella primavera del 1983. Parole simili dovette usare con Nilde Jotti per schermirsi quando l’allora presidente della Camera le propose di candidarsi per le elezioni politiche dello stesso anno. «Conoscevo, già da molti anni, Natalia Ginzburg – così Jotti ricorda quell’incontro avvenuto nella sede romana dell’Einaudi – : le dissi, con molta semplicità, quale era la ragione della mia visita e il fatto che i miei compagni mi avevano chiesto di andare da lei per chiederle di accettare la candidatura nelle nostre liste […]. Natalia mi parve spaventata di questa proposta e mi disse subito: “Ma no! Non mi sono mai occupata di politica, non saprei; io faccio la scrittrice, la consulente editoriale: questo è il mio lavoro ed io sento, in questo lavoro, di poter dare qualcosa. Che cosa farei sui banchi di Montecitorio?”
Eppure, presasi un giorno di tempo per riflettere, Natalia Ginzburg racconta che, malgrado la consapevolezza della sua incompetenza, decide di dire di sì.
«Mi è stato chiesto di presentarmi alle elezioni, nelle liste del Partito comunista, e ho accettato. Subito dopo aver accettato, mi sono chiesta se non era quello un atto di estrema presunzione». Il figlio l’aveva sconsigliata energicamente, l’amico Vittorio Foa invece l’incoraggiò perché proprio quel suo sentirsi inappropriata l’avrebbe resa una deputata molto brava, capace di innestare immaginazione e al contempo senso di realtà nel suo compito.
Il consenso dei torinesi, suoi elettori/lettori, la premiò e a Montecitorio rimase non solo per la IX legislatura, ma anche nella X, confermata dai voti del collegio di Perugia. L’on. Natalia Levi Baldini, con questo nome infatti volle sedere alla Camera – quasi a segnalare nel suo nuovo ruolo politico-istituzionale una identità diversa da quella più nota della Ginzburg scrittrice, traduttrice, saggista, consulente editoriale – s’iscrisse al gruppo della Sinistra indipendente e fu membro prima della commissione Interni e successivamente della commissione Lavori pubblici. Adempì con straordinaria assiduità e impegno al suo mandato sino alla morte avvenuta nella notte tra il 7 e l’8 ottobre 1991.
Le tracce di quell’esperienza sono ora riproposte efficacemente da Michela Monferrini, che introduce e cura la pubblicazione dei discorsi parlamentari, di alcuni articoli e interviste.
Spiccano nelle pagine introduttive episodi e ritratti suggestivi, quasi fotogrammi di un docu-film, come l’incontro della neo-deputata con Enrico Berlinguer nel salone di primo piano di Montecitorio, il famoso o famigerato Transatlantico. E pare di vederla percorrere quegli spazi solenni con la sua grande borsa nera piena di libri e di giornali e con l’abbigliamento che le era consono, sobrio, quasi austero, descritto nelle cronache.
Non furono molti i suoi interventi in Aula, ma tutti dedicati a temi cruciali e meticolosamente calibrati nella misura, nel lessico, nel tono. Almeno due riguardano il dilemma pace/guerra, l’uno pronunciato il 15 novembre 1983 e l’altro quattro anni più tardi, il 12 settembre 1987.
Un filo rosso lega i due discorsi e cioè l’idea che non esistano guerre giuste, che la pace vera non si realizzi approntando sistemi difensivi e che il disarmo unilaterale sia l’unica via percorribile per bandire la guerra dal mondo. Le occasioni erano diverse ma sia che si trattasse di creare a Comiso una base missilistica Nato, come il governo Spadolini poi decise, o di inviare nel Golfo Persico unità della Marina militare a difesa dei traffici commerciali minacciati dalla guerra tra Iran e Iraq, come propose il governo Craxi, il dissenso della deputata Levi Baldini era reciso e le parole scelte vibranti di tensione morale. In tutti e due i casi, a suo avviso, si sarebbe portata acqua al mulino della violenza, invece di costruire un mondo più giusto. «L’onore e la dignità di un paese non si possono oggi difendere con le armi – disse nel 1987-. La violenza genera violenza e le armi generano armi; e il nostro mondo è saturo di violenza». Gli argomenti utilizzati per perorare questa opposizione alla linea del governo non sono di tipo giuridico o filosofico. Avrebbe potuto ad esempio evocare la fedeltà al dettato costituzionale e all’articolo 11 che fissa per l’Italia il «ripudio della guerra» oppure avrebbe potuto sostenere il suo pacifismo ricorrendo alle tesi del suo amico Norberto Bobbio, che pochi anni prima aveva analiticamente decostruito le basi teoriche del bellum iustum e discusso, specie in connessione con la minaccia nucleare, le possibilità di successo del pacifismo e dell’azione non-violenta.
Natalia invece propone una riflessione etico-politica. Da un lato, invoca un controllo democratico a proposito degli euromissili a Comiso e sostiene la necessità di misurare il consenso popolare al riguardo per attenervisi; dall’altro, spiegale radici storiche e morali di una politica di pace. «L’Italia che era in passato un paese mite è oggi diventata una stazione per il traffico di armi e droga; era un paese mite anche quando i suoi governanti suonavano tamburi di guerra […]. Un mondo senza violenza, senza droga, senza traffici di armi, senza mafia, senza camorra, senza sequestri di persona: questo è il futuro che vorremmo destinato all’Italia […]. Ma la vera pace stabile, forte e duratura è possibile costruirla dentro di noi, o almeno gettarne le fondamenta, quando un vero orrore della devastazione e della violenza sia vivo in ognuno» (pp.63-64). In entrambi i casi il governo andò per la sua strada e respinse le obiezioni dell’opposizione, ma le parole della deputata non sono cadute nel vuoto e, a distanza di quasi quattro decenni ,conservano forza e attualità.
Come aveva previsto Foa, l’innesto di immaginazione e di sensibilità anche poetica nell’esercizio del mandato parlamentare, mette ali all’intervento di Natalia Ginzburg, che riesce a intrecciare slancio utopistico e realismo terragno nel suo discorso.
Del resto a dispetto delle sue proteste di inadeguatezza, tutta la vita della scrittrice si può leggere come un lungo, irreversibile tirocinio alla politica. Dal segreto impostole da bambina, quando in casa sua venne nascosto Filippo Turati, in fuga dalle violenze fasciste grazie alla rete clandestina ordita da Ferruccio Parri, Carlo Rosselli e Sandro Pertini, al coinvolgimento nella «cospirazione alla luce del sole» – prendiamo a prestito la definizione di Giovanni De Luna – creata a Torino da Giustizia e Libertà, alla dimestichezza con carcere e confino fascista al fianco del marito Leone Ginzburg e via via attraverso le tappe dell’adesione al Partito d’Azione, poi al Partito comunista fino al ’52 e all’esercizio critico di opinionista attenta alle trasformazioni della cultura e della società italiana. Certo la sua non è politica come mestiere e si sostanzia di capacità strategiche, ma è politica nel senso più alto e etimologico della parola, come cura e servizio alla polis.
Vengono in mente le riflessioni di Hannah Arendt che, rivolgendosi a un pubblico non accademico di lettori, scrisse della politica come occasione e spazio di libertà, nel quale «finché gli uomini possono agire, sono in grado di realizzare l’improbabile e l’imprevedibile». Parole che sarebbero certo piaciute a Natalia Ginzburg, che pur pessimista, non manca del coraggio civile per indignarsi, prendere pubblicamente posizioni nette su temi controversi e non chiudere la porta appunto all’imprevedibile. In una intervista data nel 1983 a Ottavio Cecchi, il cui testo è pubblicato in appendice al volume di Michela Monferrini, proprio rispondendo a sollecitazioni del suo interlocutore, Ginzburg esprime la speranza che il suo impegno come parlamentare abbia qualche ricaduta prativa , ad esempio nelle «zone buie » dell’emarginazione sociale e afferma: «Qualche volta succedono fatti imprevedibili. Bisogna credere nell’imprevedibile». Come appunto imprevedibile era stata la Resistenza, un moto di riscatto dalla dittatura e dalla guerra grazie a tanti uomini e donne determinati a ribellarsi all’ingiustizia e alla violenza nazifascista.
Anche su altri temi affrontati nei suoi discorsi, come il prezzo del pane, il problema della casa, la violenza sessuale ritroviamo una costante attitudine a eludere il registro ideologico e a restare ben aderente a fatti e a situazioni concrete per innestarvi tuttavia una riflessione sui valori fondanti. Così, ad esempio, nel suo intervento del 1989 a proposito della legge sulla violenza sessuale, all’epoca considerata ancora reato contro la morale e non contro la persona, come sarebbe stata definita ben sette anni più tardi, Ginzburg si dichiara pronta ad accettare una legge imperfetta, purchè essa riesca a «circoscrivere il crimine vero e reale, quello che colpisce la persona a sangue e per sempre, quello che lascia sugli altri sventure e cicatrici che è impossibile cancellare». Nessuna traccia di retorica o di invettive femministe rinveniamo nel suo discorso, che con discrezione e rispetto si avvicina alla «zona più segreta e più intima dell’esistenza umana» per esigere giustizia per i deboli contro i forti. Del resto in più occasioni non mancò di rimarcare la sua distanza dal femminismo, a suo parere fondato su una visione antagonistica dei due generi, serenamente affermando che in ognuno di noi vivono diverse identità sessuali.
Ma il dato che più fortemente risalta in queste pagine, indipendentemente dal tema, è il registro lessicale e stilistico adottato. Il lessico è parsimonioso, selettivo, nitido e le frasi sono costruite su un modello di piana, universale intelligibilità. Tale scelta non solo è peculiare di ogni presa di parola della deputata, ma diventa anche una sorta di manifesto critico contro il linguaggio astruso delle leggi, quello autoreferenziale dei politici, quello opaco o ambiguo dei giornali, insomma contro il linguaggio del potere. In nome di una acuta sensibilità democratica le identità di scrittrice e di deputata si sovrappongono in un appello per un linguaggio «chiaro, accessibile a tutti, […] limpido come uno specchio perché la gente vi si possa specchiare»
Ancora, in chiusura, qualche nota sul contesto entro il quale si situano queste pagine che ci sembrano giungere da una distanza siderale e da un’altezza etico-politica cui siamo disabituati. Certo la Ginzburg che ci parla in questo ricco libriccino ha attraversato gli anni di piombo e conosciuto le tante crisi di quella che è chiamata la prima repubblica, ma, scomparsa nel 1991, non è stata lambita dal terremoto di Tangentopoli, dall’azzeramento dei partiti storici e dalle “nuove guerre” vicine e lontane, che in vario modo coinvolgono il nostro paese. Sono passati quarant’anni e sembrano secoli. Specie per quanto riguarda il degrado del costume e del dibattito politico: ante era berlusconiana, la politica raccontata nel libro della Ginzburg ci pare davvero paradigma di un’Italia migliore.
Testi citati nell’ordine
Natalia Ginzburg, Senza una mente politica, in Non possiamo saperlo. Saggi 1973-1990, Torino, Einaudi, 2001;
Natalia Ginzburg, Una cosa finalmente lieta. Scritti civili e discorsi politici, a cura di Michela Monferrini, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2023;
Nilde Jotti in Ricordo di Natalia Ginzburg 1997, p.26 consultato on line
Norberto Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, 1° ed., Bologna Il Mulino, 1979;
Hannah Arendt, Was ist Politik?, , trad.it Che cos’è la politica?, 1° ed. Milano, Edizioni di Comunità, 1995.