Giovanni Testori (Novate Milanese 1923 – Milano 1993), ingegno eclettico come pochi, fu narratore, poeta, drammaturgo, critico d’arte, giornalista, elzevirista, regista teatrale e apprezzato disegnatore. Agli esordi della carriera, con il racconto lungo Il dio di Roserio (1954) e le raccolte di novelle Il ponte della Ghisolfa (1958) e La Gilda del Mac Mahon (1959), primi volumi del fortunato ciclo de ‘I segreti di Milano’, si riallacciava alla tradizione della scapigliatura milanese, movimento di scrittori e artisti di tendenze radicali che nella seconda metà dell’Ottocento “descrivevano la seduzione e l’orrore della società industriale e delle grandi città tentacolari” (Giuseppe Petronio), trascinando una vita dissennata e spesso breve ai margini della società del tempo. Vi erano riconducibili a vario titolo autori quali Carlo Dossi (1849-1910), Vittorio Imbriani (1840-1886), Giovanni Camerana (1845-1905), Arrigo (1842-1918) e Camillo Boito (1836-1914), Emilio Praga (1839-1875) e Iginio Ugo Tarchetti (1841-1869) che, tra stenti, alcool, malattie e pulsioni suicide, segnati da un anarchismo borghese spesso esteticamente sterile, indulgevano alla vita di bohème sul modello di certo maledettismo d’oltralpe (e segnatamente del sommo poeta Charles Baudelaire [1821-1867]): fenomeno sociale, forse (ma con notevoli eccezioni), prima ancora che artistico. Tuttavia, molto presto, in adesione al clima del secondo dopoguerra, in bilico fra boom economico e crisi dei valori, e in coerente sviluppo con quegli inizi, Testori si affiliò alla cosiddetta ‘letteratura industriale’, “volta ad analizzare la condizione dell’uomo in questa età di macchinismo e industria, l’alienazione che ne consegue, e la perdita e la sconfitta dell’umanità” (Giuseppe Petronio): corrente nella quale confluivano, seppure in modi e toni diversi, i coevi Luciano Bianciardi (1922-1971, vedi articolo), Lucio Mastronardi (1930-1979), Goffredo Parise (1929-1986), Ottiero Ottieri (1924-2002) e Paolo Volponi (1924-1994). Dopo il dramma L’Arialda (1960), incorso negli inopinati strali della censura dell’epoca, e il romanzo Il Fabbricone (programmatico già nel titolo), Testori pubblicò la sua prima silloge di poesia I trionfi (1965), nella quale si precisava la poetica alla quale si sarebbe informata la sua produzione successiva, “oscillante fra il sublime e il «basso»” (Roberto Rossi). Esperto d’arte, dava, intanto, alle stampe Il gran teatro montano, fondamentale raccolta di saggi sul pittore Gaudenzio Ferrari. Alla produzione teatrale appartengono invece il dramma Erodiade (1969), la trilogia tragica degli ‘Scarrozzanti’ Ambleto (1972), Macbetto (1974) e Edipus (1977) e I promessi sposi alla prova (1984). Uscì postumo il romanzo Nebbia al Giambellino (1995).
Il dramma La Maria Brasca (1960), rappresentata con buon successo nella serata di sabato 3 febbraio al Teatro Maggiore di Verbania per la regia di Andrée Ruth Shammah, costituisce il terzo capitolo de ‘I segreti di Milano’: lo spettacolo gira in tournée già dall’anno scorso, in concomitanza con il centenario della nascita dell’autore.
La vicenda – un dramma popolare – si colloca negli anni ’50 ed è ambientata nel quartiere di Niguarda, periferia degradata di Milano, capitale riconosciuta del ‘miracolo economico italiano’ e, insieme, novella suburra. Maria Brasca è una giovane operaia di calzificio di ventisette anni, dall’indole coraggiosa e volitiva, determinata a conseguire a ogni costo i propri elementari obiettivi e indifferente alla malevola voce pubblica, che non le perdona la disinvoltura con la quale intraprende sempre nuove effimere avventurette galanti, rinfacciatele impietosamente dal cognato in una scena del dramma. Il suo stile di vita libero e schietto alimenta fatalmente nell’intero quartiere chiacchiere e pettegolezzi che mettono visibilmente a disagio soprattutto i più stretti congiunti, che temono di veder compromessa la propria onorabilità di facciata. Ancora signorina (come usava dire), ma non rassegnata al nubilato, Maria vive con la sorella e il cognato in perenni ristrettezze finanziarie in una casa che sorge a fianco della ferrovia. Il frequente e fragoroso transito dei treni obbliga a interrompere spesso i dialoghi e produce vibrazioni così forti da far cadere immancabilmente la pentola dallo scolapiatti, il che obbliga, in quei frangenti, gli occupanti della casa – quello che in quel momento si trova più vicino – a tenerla ferma con la mano o ad acchiapparla al volo. A dispetto del carattere ribelle, le aspirazioni di Maria sono abbastanza convenzionali: metter su famiglia, avere una casa propria, dare alla luce dei bambini… Incontrato il ventiquattrenne Romeo Camisasca, giovane attraente, fatuo e scioperato, senz’arte né parte ma, per la sua bellezza, idolo di tutte le ragazze del quartiere, il quale – viene lasciato intendere – vive di piccoli espedienti e senza vergogna si fa mantenere dall’amante di turno, se ne innamora, corrisposta – almeno inizialmente, finché lo sfrontato mascalzone non le preferisce la più giovane e fresca Renata.
In questa relazione, però, contrariamente che nelle sue precedenti, Maria ha impegnato definitivamente il suo cuore e la sua vita, e a ogni costo pretende di essere ricambiata. Dapprima, di fronte all’inatteso tradimento, in preda alla disperazione di un’esistenza faticosa e ingrata che si presenta ormai senza sbocchi e senza scopo (l’amore è la sua unica ragione di vita), sembra cedere alla tentazione del suicidio, ed è già sul punto di gettarsi sotto al treno in arrivo quando all’ultimo istante, per uno scrupolo provvidenziale, ci ripensa rientrando precipitosamente in cucina, appena in tempo per evitare la caduta della pentola: scena di umorismo profondo, nella quale il momento estremo nella vita di una persona si intreccia con la ridicola grettezza della realtà quotidiana. Resta che, in un’esistenza fatta soprattutto di privazioni, Maria, a torto o a ragione, ha puntato tutto su Romeo, e non intende rassegnarsi a quella perdita senza lottare. Affronta allora la situazione di petto, come le impone e suggerisce l’indole battagliera, e in un serrato confronto con la rivale, gettandole pubblicamente in faccia, per disgustarla di lui, dettagli scabrosi, irriferibili della sua relazione col Camisasca, indurrà Renata a sgombrare il campo: tattica se si vuole discutibile, ma alla fine efficace.
Commedia sostanzialmente ottimistica, riconducibile al filone neo-realistico dell’epoca, riflette puntualmente i forti cambiamenti sociali intervenuti nell’Italia del tumultuoso boom economico che caratterizza il secondo dopoguerra e produce radicali e inarrestabili mutamenti nei costumi e nella morale. Antesignana del movimento femminista, che vedrà la luce di lì a pochi anni, ‘la’ Maria Brasca, pur con qualche risvolto di femminile fragilità che contribuisce a renderla personaggio vero, rappresenta, fin dal suo apparire, in modo diretto, non didascalico, un combattivo modello di tante imminenti rivendicazioni. Incarna valori nuovi, che, al di là delle facili dichiarazioni di principio, stenteranno – e ahinoi ancora stentano – ad affermarsi pienamente.
I dialoghi sono vividi e diretti, serrati e brillanti; il linguaggio elementare, (apparentemente) anti-letterario, a rendere con realismo il milieu proletario in cui la vicenda è calata. (Non dimentichiamo che il regista Luchino Visconti si ispirò a Il ponte della Ghisolfa per il suo capolavoro Rocco e i suoi fratelli, di analoga ambientazione).
Bella la scenografia, articolata su due piani (la strada disseminata di foglie secche che ogni tanto uno spazzino viene a disperdere e, in posizione più elevata, il modesto appartamento) collegati fra loro da pochi gradini, concepita dal collaboratore storico della Shammah Gianmaurizio Ferzoni; il commento musicale, parte integrante dello spettacolo, è affidato ora alle note struggenti di Fiorenzo Carpi che rievocano nostalgicamente quegli anni lontani, ora a famosissime canzoni popolari del passato che ancora oggi, nel 2024, qualcuno ricorda e canticchia (per es.: Ventiquattromila baci e Le mille bolle blu [che per la verità sono del ’61, quindi posteriori di un anno alla prima rappresentazione]).
Incontrastata protagonista della pièce il personaggio di Maria Brasca, dalla femminilità dirompente, interpretata da una inesauribile, ciclonica Marina Rocco – validamente coadiuvata dai colleghi Mariella Valentini (la sorella maggiore, rassegnata e paziente), Luca Sandri (il cognato benpensante e fedifrago) e Filippo Lai (Romeo) – impegnata in un ruolo che nel passato già fu cavallo di battaglia di grandi attrici quali Franca Valeri e Adriana Asti, con le quali, a distanza di tanto tempo, regge il confronto, e che non disdegna, in un paio di brevi appassionati monologhi, di scendere dal palco fra il pubblico.
A proposito della presente rappresentazione, la regista di lungo corso Andrée Ruth Shammah da dichiarato:
“Un personaggio femminile indimenticabile, una donna vincente che grida al mondo la potenza della passione e l’amore per la vita vissuta fuori da ogni convenzione: uno stimolo a inseguire i propri sogni e vivere con grande fiducia nel futuro.
Negli anni ‘60 fu Franca Valeri a farla esistere sul palcoscenico ma poi, con la mia regia, per anni è stata il grande successo di Adriana Asti e ora, nei cento anni dalla nascita di Testori e nella stagione del Cinquantesimo del Teatro Parenti, ho sentito la necessità di far rinascere “quello” spettacolo, quello e non un altro perché affascinata da quella volontà di Maria di non cedere, di difendere tutto ciò che rappresenta la sua vita e non aver paura di parlare di felicità (uno stato d’animo così prezioso ma assente nel teatro di Testori e così raro nella drammaturgia contemporanea).
Oggi, guardando Marina Rocco interpretare l’incantevole limpidezza dei pensieri di Maria e vedendola così vibrante d’infanzia, di severità sensuale, di quel fascino che la avvolge senza che lei faccia il minimo sforzo, a me sembra sia rinato per avere una nuova, lunga vita.”
Evidentemente Maria Brasca, donna tutta nervi e istinto, ribelle ma prona alla potenza delle passioni, vede nel giovane scapestrato qualcosa che – charme a parte – gli altri non riescono a scorgere. Non che le sfuggano gli evidenti difetti del fidanzato, infingardo e canaglia: il suo obiettivo è anzi di fargli mettere la testa a partito, strappandolo alle cattive compagnie che frequenta e adoperandosi, tramite un ex-‘amico’, a trovargli un lavoro onesto. Alla fine, grazie soprattutto alla sua incrollabile tenacia, l’avrà avuta vinta: conquisterà e – presumibilmente – sposerà Romeo Camisasca. Saranno felici? Mentre ascoltiamo gli applausi scroscianti degli spettatori che accolgono l’appassionato monologo conclusivo di Maria Brasca, non possiamo altro che confidare nella bontà dell’intuito della generosa e solare protagonista, alla quale va l’incondizionata simpatia di tutto il pubblico in sala.
La Maria Brasca
di Giovanni Testori
uno spettacolo di Andrée Ruth Shammah
con Marina Rocco,
Mariella Valentini, Luca Sandri, Filippo Lai
scene Gianmaurizio Fercioni
costumi Daniela Verdenelli
luci Oscar Frosio
musiche Fiorenzo Carpi
riallestimento a cura di Albertino Accalai per la scena e Simona Dondoni per i costumi
produzione Teatro Franco Parenti / Fondazione Teatro della Toscana