La morte di Navalny è una notizia terribile e inquietante, un messaggio chiaro diretto a chi in Russia osa esprimere il dissenso, cosa peraltro ormai pressoché impossibile dopo la nuova stretta repressiva inaugurata con la guerra di aggressione all’Ucraina.
Per ogni decesso in custodia dello Stato, è lo Stato che deve fornire ogni chiarimento e assumersi la responsabilità di quanto accaduto: è importante che le autorità russe siano esaurienti e trasparenti a tale riguardo ed è fondamentale che la comunità internazionale lo pretenda.
Navalny stava scontando una serie di condanne per reati fabbricati di estremismo e frode, politicamente motivate. Si trovava in una colonia penale a regime durissimo oltre il circolo polare artico. Per settimane era risultato “scomparso”, con ogni probabilità sottoposto a un estenuante trasferimento tra istituti di pena lontanissimi tra loro.
La storia sembra ripetersi da un periodo storico all’altro: chi esprime dissenso nei confronti di chi è al potere a Mosca muore, nelle prigioni o nelle strade russe o in circostanze misteriose all’estero. Va ricordato che, nell’agosto 2020, Navalny era sopravvissuto a un tentativo di avvelenamento su cui le autorità russe non avevano mai svolto indagini degne di questo nome.
Avvelenamento, isolamento, trasferimenti, carcere duro: la salute di Navalny non può non aver risentito di tutto questo. Soprattutto, nel luogo in cui è morto non doveva stare. Era un oppositore, un prigioniero di coscienza.
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