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La guerra in casa

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Tutte le guerre ti entrano in casa. A volte ci entrano con l’irruenza di un gesto terroristico, altre volte bussano sotto forma di scontro ideologico, oppure le vedi attraverso una mano tesa a chiederti un po’ di cibo. Comunque tutte le guerre prima o poi ti entrano in casa. È sempre successo. Le intromissioni dell’Ambasciata di Israele in Italia e poi la lettera del Rabbino Capo Di Segni sono un segnale chiaro in questa direzione. Provo a spiegare perché.

Innanzitutto perché entrambi i documenti hanno un destinatario comune: la Chiesa cattolica. Che in Italia non è un’istituzione secondaria. E che con Papa Francesco ha preso coraggiose posizioni pacifiste. Nella lettera dell’Ambasciata c’era scritto che la dichiarazione del Segretario di Stato Parolin sulla sproporzione della guerra israeliana contro i civili palestinesi era “deplorevole” (poi se la sono parzialmente rimangiata). Nella lettera del Rabbino Di Segni pubblicata da Repubblica i vertici della Chiesa sono più volte criticati: inopportuno che il Cardinal Ravasi citi la canzone di Ghali, il Papa non ha condannato con sollecitudine gli attentati del 7 ottobre, è fumosa la sua condanna dell’antisemitismo. Balza agli occhi che il bersaglio delle critiche israeliane e della più alta autorità ebraica in Italia è la posizione – semplificando un po’ – equivicina dei vertici del cattolicesimo. O se preferite il Vaticano viene stigmatizzato perché non è più vicino al governo israeliano. Legittimo? Certo. Però persone di quella caratura dovrebbero saper calcolare le conseguenze delle loro azioni. Se il rappresentante di uno stato contesta un Ministro degli Esteri è un segnale di forza o di debolezza? In questo caso di debolezza. Quell’ambasciata percepisce chiaramente che tutto il mondo sta domandandosi quando finirà questo osceno massacro di civili palestinesi e – come si dice a Roma – prova a buttarla in caciara. Una conferma di questa piega tragicomica è il comunicato di un paio di giorni prima, quando lo stesso Ambasciatore è intervenuto contro Ghali. Ma puntare il dito contro un cantante ha un peso diverso dall’accusare il Vaticano. Peraltro va notato che sia il cantante che lo Stato pontificio hanno risposto per le rime ai rappresentanti di Tel Aviv. E se fossi un ambasciatore non lo metterei nel mio curriculum…

Vista la figuraccia ci ha provato il rabbino capo Di Segni che ha scritto: “Il problema non era che lui (Ghali) ne parlasse, ma che non vi fosse alcun contradditorio”. Avete capito? Ci doveva essere un altro cantante o il presentatore che dicesse “non fermiamo il genocidio”? Un’idea piuttosto manichea della democrazia. Domanda: se il Patriarca Latino di Gerusalemme inviasse una lettera al giornale Maariv per lamentarsi della mancanza di contraddittorio sulle tv israeliane il Rabbino Capo Di Segni sottoscriverebbe?

Nelle due missive, quella dell’Ambasciata e quella del Rabbino Capo, ci sono altre argomentazioni che gettano benzina sul fuoco. “Secondo i dati disponibili, per ogni militante di Hamas ucciso hanno perso la vita 3 civili”, scrivono i diplomatici israeliani. Quali dati? Dove sono disponibili? Chi li ha forniti? Come li hanno raccolti? Mistero. Qualche riga dopo si sostiene che nelle guerre Nato la proporzione era di 9 o 10 civili uccisi per ogni terrorista colpito. In poche parole Israele dice che i suoi alleati si comportano peggio. Una gara a chi ne ammazza di più che non fa onore a nessuno. E che forse ha irritato qualche alleato?

Il rabbino Di Segni invece si concentra sul ruolo della Chiesa sostenendo, in sintesi, che dietro le parole del Papa si nasconda una colpevolizzazione implicita di Israele. Legittimamente il più alto rappresentante degli ebrei italiani sostiene che “lo spirito critico dovrebbe guidarci nel valutare cosa nascondono slogan e proclami, dove c’è una reale volontà di pace, e come poter essere insieme costruttori di pace”. Insomma lo spirito critico suggerito da Di Segni dovrebbe tenerci alla larga da slogan come “stop al genocidio” perché queste parole sono solo apparentemente di pace.
Questo uno-due è un’offensiva di Israele: rappresentanti di uno stato e di una comunità sempre meno laici provano ad uscire dall’angolo in cui la loro reazione furiosa agli attentati del 7 ottobre li ha portati. Per rimanere nel clima sanremese è come se accecati dal desiderio di vendetta l’Ambasciatore e il Rabbino non capiscano perché le élite votano ancora per loro ma il pubblico da casa no. Eppure la risposta è facile: bastano i carri armati negli ospedali di Gaza a spiegarlo.

 


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