“Compagnia Godot” di Bisegna-Bonaccorso.
Maison Godot, Ragusa.
Costumi di Federica Bisegna.
Scena e regia di Vittorio Bonaccorso.
Interpreti: Federica Bisegna, Vittorio Bonaccorso, Benedetta D’Amato, Lorenzo Pluchino, Rossella Colucci.
Un interno borghese inglese “old style”, due coppie di signori ordinari, i coniugi Smith (Federica Bisegna e Vittorio Bonaccorso, straordinari) e Martin (Benedetta D’Amato e Lorenzo Pluchino, impeccabili), di quelli apparentemente rassicuranti, e una cameriera, Mary (la sempre impeccabile Rossella Colucci), che li asseconda, talvolta insofferente. Ben presto, lo spettatore si accorge che nei loro dialoghi qualcosa non va. Gli Smith e i Martin, prima da soli e poi in quartetto, si battibeccano con frasi insensate, ripetitive, monocordi, infarcite di modi di dire e luoghi comuni. E’ la morte della parola, il salotto in cui le due coppie si muovono (tanto simile a quello de “L’angelo sterminatore” di Luis Bunuel) è il non luogo dell’esistenza, la pendola alle loro spalle, agita dalla cameriera, segna un tempo che scorre pur restando fermo, perchè la parola tagliata in bocca è fuori da esso, non lo contempla più. La Storia si è fermata. Siamo nel 1950, a Parigi, Ionesco ha inventato il Teatro dell’assurdo, quello che racconta la deriva dell’umano verso il vuoto, del sè e del suo essere “animale” sociale. E’ chiaro Ionesco, non generalizza. I suoi protagonisti sono borghesi, il mondo che conta, quello occidentale, è governato dalla borghesia, ergo la realtà sta per esaurirsi, scomparire, svaporare. Ed il linguaggio, che è il primo segno di ogni uomo e di ogni società, da sempre, è il veicolo principale attraverso cui l’autore franco-rumeno ci informa della definitiva implosione di una realtà giunta al suo grado zero. L’incomunicabilità beckettiana è tragicamente anticipata, e addirittura già superata, da questa pièce in cui il “non sense” diventa ordinarietà, persino logica, addirittura istituzionale. L’ordine è contenuto dentro il disordine più assoluto. L’impossibilità di comprendersi di Pirandello cede il passo ad un universo definitivamente dissolto, capace di avvitarsi su stesso in un processo linguistico e metalinguistico pronto a deflagrare per poi ricomporsi più “folle” di prima. Proprio le istituzioni statali, incarnate dal personaggio del capitano dei pompieri (il sempre bravo Alessio Barone), sono in prima fila in questa gara al pensiero “sfuggito”, in questa messinscena in cui le persone diventano marionette immerse in una logica senza neanche un puparo che le diriga. La borghesia, dice Ionesco, sta producendo l’annullamento dell’umano facendosene un vanto, si autodistrugge fagocitando tutto ciò che la circonda, di questo caos nutrendosi. Tutto senza consapevolezza alcuna, preservandosi nella follia, direbbe Freud. Il surrealismo di Ionesco si fonde, talvolta, nell’espressionismo farsesco, fino a sciogliersi in una splapstick comedy stile Ridolini e Cretinetti, con la differenza che questi ultimi erano i distruttori di un ordine inadeguato, mentre i signori Smith e Martin (de)costruiscono dalle fondamenta (la parola) una realtà “adeguata” all’assurdità della loro classe. E’ proprio un’invettiva “politica” quella de “La cantatrice calva”, e per questo quanto mai attuale, attualissima, in un mondo dove il linguaggio continua a declinare “assurdità” semiotiche figlie di un tempo senza più logica, e per questo senza più speranze. Vittorio Bonaccorso ha saputo dare il giusto ritmo ad una messinscena che riesce a fondere al meglio verbale e non verbale, in un mix esplosivo che diverte la platea ma dietro cui si nasconde la tragicità della nostra contemporaneità. Nel 1950, la cameriera aveva forse un ruolo potenzialmente rivoluzionario, un pò come “Le serve” di Genet o quelle di Chabrol de “Il buio nella mente”. Oggi, Mary è la conferma di una impotenza impossibile da superare, e i suoi tanti “mah” suonano davvero sinistri, fortunatamente divertendoci anche tanto…