Quando può dirsi conclusa la vita di un essere umano? Con la morte sembrerebbe ovvio rispondere, liberazione o approdo, se giunta in età matura, insulto o capriccio, se stroncata prima di dispiegarsi completamente. E il pensiero della morte istintivamente non può essere disgiunto da un bilancio, da una riflessione sul senso e sull’utilità dei propri passi mossi sulla Terra.
Ne Il giorno del giudizio di Salvatore Satta, pubblicato postumo e consegnato al successo dalle edizioni Adelphi, i giorni andati, con il loro corredo di dolore, aspettative e sogni infranti, vengono riacciuffati e ripensati partendo proprio dalla fine, perché forse solo iniziando dalla conclusione è possibile sostanziare il passato. Il Tempo è l’unico vero sovrano che tutto livella, vita e morte si mescolano con un andamento che sembra dominato dal caso. L’illusione foscoliana di una sopravvivenza affidata al ricordo di chi, ancora vivente, la alimenta, è sostituita dall’opposto bisogno di essere “liberati dalla vita” attraverso l’atto della narrazione, quella vita che per legge di natura prende il sopravvento, scavalca il transeunte e si perpetua, paga del proprio trionfo.
Al cimitero della città d’origine, Nuoro, torna un anonimo narratore (nel quale è legittimo intravedere lo stesso autore) che sente di essere ormai vicino alla fine. Ha fatto un lungo viaggio per rivedere i luoghi dell’infanzia e percepirne forme e odori, per riconoscerli forse e ritrovare quel troncone della propria vita che lì ha avuto origine e che lì è rimasto conficcato mentre la restante parte si è spezzata per svolgersi altrove. Ha condiviso quel lembo di terra con i tanti personaggi che come spettri inquieti attendono di essere riesumati dalle parole per essere consegnati, almeno sulle pagine di un libro, al supremo giudizio degli uomini e di un Dio che appare indifferente spettatore di una commedia umana dalle tinte fosche.
Impossibile non collocare il romanzo nel solco magnifico e visionario dell‘Antologia di Spoon River, per quell’atmosfera sospesa tra sogno e realtà nella quale i defunti (i dormienti sulla collina di Edgar Lee Masters) possono materializzarsi nella mente dell’autore ed essere consegnati ai posteri, con le loro storie, tutte le storie, da quelle intrise di fallimento e miserie a quelle apparentemente lustre e appaganti. Il romanzo è comunque pregno di altri evidenti rimandi letterari: le descrizioni crude e realiste del territorio sardo già appartenute alla Deledda, la poetica verghiana dei vinti, l’aristocratico fatalismo di Tomasi di Lampedusa. E letterario risulta anche il linguaggio, colto e sostenuto sul piano sintattico e su quello lessicale.
La storia della famiglia Sanna Carboni, ritratta tra la fine dell’Ottocento e gli anni successivi alla Grande Guerra in un itinerario segnato inizialmente dal benessere sino alla progressiva dissoluzione, si porge come filo conduttore alla capacità evocativa del narratore chiamato a raccontare del notaio, retto e lavoratore indefesso, della moglie, donna Vincenzina, e dei loro numerosi figli.
Inizialmente Satta quasi si inebria nella descrizione della città a lui cara e i primi capitoli, che ne tracciano origine, strade e quartieri con estrema minuzia, ne risultano appesantiti e rendono ostico l’approccio al testo, ma durante il suo percorso di messa a fuoco delle vicende dei Sanna Carboni il narratore viene distratto, chiamato, quasi strattonato dai tanti altri personaggi che in qualche modo sembrano rivendicare attenzione e memoria. Il racconto diventa allora sontuoso perché sviscera vizi e virtù di una società chiusa nel bozzolo dell’identità isolana ma sensibile alle lusinghe del continente, pigra al dibattito politico ma consegnata alle manovre di mediocri personaggi e di apparati ecclesiastici assai abili nelle strategie persuasive, inconsapevolmente avviata alla sciagura bellica della quale giungono solo bagliori lontani o rapaci richieste di giovani vite. Come in una allucinata processione sfilano maestri, ereditieri, prostitute, prelati, sacerdoti, dementi, contadini, pezzenti, beoni, serve, zitelle, una commedia umana con piena vocazione tragica alla quale si assiste da vicino restandone però intimamente distanti. Al lettore Satta, che si interroga sulla funzione della sua scrittura rivelatrice, non chiede infatti giudizi né compassione, sebbene quest’ultima sorga prepotente in certe pagine in cui gli umili subiscono offese crudeli e gratuite.
Ai figli del notaio, che lui vorrebbe crescere come naturali propaggini di se stesso, sembra destinato un futuro di studi e successi, ma naturalmente non sarà proprio così. A quei ragazzi, tutti maschi, se si escludono le due femmine morte in tenerissima età, la vita riserverà cadute e risalite determinate da indoli particolari o da eventi avversi, alcuni ineludibili perché generati dalla grande storia. La madre, un tempo bellissima ma ormai sformata dalle gravidanze e rallentata dall’artrite, può solo limitarsi a osservarli come una chioccia amorosa, a palpitare per i loro silenzi, a farsi divorare dall’ansia per la lontananza.
Il Tempo, si diceva, il tempo infine avvolge e travolge, e quando si assottiglia impone i ricordi come ultima fiammella prima che lo stoppino finisca di bruciare.
Salvatore Satta
Il giorno del giudizio
Adelphi editore
pp.292
€ 13,00