La stessa frase l’abbiamo sentita di recente dal padre di Ilaria Salis che non é certo Giulio Regeni, torturato e ucciso al Cairo ma un’attivista accusata di aggressione e lesioni gravi a due esponenti della galassia nazista ungherese e di far parte di un’associazione eversiva di estrema sinistra. Lei si dichiara innocente e senza prove evidenti di reato viene trattenuta in custodia cautelare in carcere a Budapest da un anno nelle terribili condizioni che lei stessa ha denunciato. Non intende sottrarsi ad un procedimento ma chiede di poterlo affrontare con le garanzie del giusto processo.
Ilaria dunque non é Giulio ma lo sconforto di un genitore che chiede invano un assist alle istituzioni nazionali per una figlia trattenuta in quel modo in un carcere straniero, é lo stesso. Così come lo è quello di tanti altri genitori in pena per i figli detenuti in un paese straniero.
Quando Paola Deffendi e Claudio Regeni iniziarono la loro battaglia per ottenere prima i nomi, poi il processo ad alcuni degli aguzzini e assassini di Giulio, molti risposero che il dolore dei familiari era comprensibile ma che bisognava anteporre la “Ragion di Stato”. Che non si poteva troppo contrariare l’Egitto mentre i genitori seppellivano un figlio il cui corpo rivelava “tutto il male del mondo” .
Paola e Claudio Regeni il prossimo 20 febbraio vedranno la prima udienza del processo al quale nessuno credeva: quello a 4 agenti della sicurezza egiziani accusati di essere torturatori e assassini di Giulio, sebbene assenti in aula. Paola e Claudio non saranno soli: saranno accompagnati fisicamente e virtualmente dalla scorta civica e mediatica che in questi anni non li ha mai abbandonati nella loro battaglia che ora anche Roberto Salis si appresta ad affrontare: per una figlia.