Non guardo Sanremo, quindi, ogni mattina so che potrei essere travolta dai commenti e dalle impressioni, scritte o parlate, sulle serate del festival. Sono pronta alla polemica, allo scherzo, alla critica impietosa, alla nostalgia dei vecchi tempi. Sono preparata, in attesa, quando d’improvviso quelche era prevedibile accade: qualche giorno fa mi compare la prima frase e poi la notizia, la rincorsa a colpi di parole chiave: Giovanni Allevi torna sul palco dell’Ariston, due anni che non si esibiva in pubblico. Amadeus parla di ripartenza, di luce e di ombra. Non guardo Sanremo ma leggo che la gente, in merito al suo monologo, è spaccata.
C’è chi era in platea, in piedi, e non la smette di applaudire; c’è chi da casa, lo guarda in differita, e lamenta un senso di cinismo che di solito si riserva ai malati. Li sento e li leggo che parlano di “bellezza del dolore” con vere e proprie divisioni di opinioni, tra chi si infuria al sol pensiero di unire due parole tanto lontane nel significato a chi vi ritrova invece una poetica di fondo. Mi decido e, tra i soliti commenti sul cachet e sui costumi, mi districo rapida per ascoltare direttamente e senza filtro le sue parole. Eccolo, lo riconosco: emozionato, parla di malattia – un tumore, il mieloma multiplo – però parla anche di speranza, la tipica e abusata parola da cui solo le grandi menti riescono a far fluire l’auteniticità della vita. Sarà questo che ha dato più fastidio.
La cura, la guarigione, i doni del Creato inaspettati e non più scontati. Si sa che è la paura della perdita più della perdita stessa a mettere in scena, scombussolare, cambiare le nostre più intime percezioni. Ecco che la speranza di poter essere ancora, nonostante e malgrado, diventa sinonimo di forza, ostinazione, la caparbietà di insistere per un respiro in più al di là di quanto ci è stato concesso. E poi, lo capisco, c’è la rabbia: il sentimento viscerale e indolente che più rimpicciolisce l’ego, quella filantropia prepotente che ci fa essere contenti e allo stesso tempo invidiosi. Quella, più che meschina è fragile, è la rabbia di chi resta: si occupano due spazi anziché uno, si fingono rappresaglie e dimenticanze e a chiunque ci ricordi che la malattia esiste, anzi è lì che esaspera il corpo e la mente, rispondiamo distogliendo lo sguardo. E’ più facile, ma il morbo, nel suo lungo devastare, lascia i segni su chiunque. Con buona pace della comunicazione mainstream che vorrebbe ad affontare la battaglia guerrieri ed eroine.
La bellezza di un dolore raccontato – in questo caso da Giovanni Allevi – mi sembra allora più simile a una controtendenza perché rimodula il tabù da un punto di vista personale. Il suo infatti non è un messaggio fine a sé stesso ma è, per dirlo con le parole di David Foster Wallace, il coraggio di chi decide di dimostrarsi debole. A mio avviso, è questo l’aspetto più bello, quello che può colpire chi non è preparato, l’accento che dimostra in modo genuino la volontà, la consapevolezza, la sospensione del giudizio, ciò che dalla prossemica sul palco arriva al pianoforte toccando ognuno di noi.