BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Giovanni Allevi a Sanremo, quella “bellezza del dolore” che dà tanto fastidio

0 0

Non guardo Sanremo, quindi, ogni mattina so che potrei essere travolta dai commenti e dalle impressioni, scritte o parlate, sulle serate del festival. Sono pronta alla polemica, allo scherzo, alla critica impietosa, alla nostalgia dei vecchi tempi. Sono preparata, in attesa, quando d’improvviso quelche era prevedibile accade: qualche giorno fa mi compare la prima frase e poi la notizia, la rincorsa a colpi di parole chiave: Giovanni Allevi torna sul palco dell’Ariston, due anni che non si esibiva in pubblico. Amadeus parla di ripartenza, di luce e di ombra. Non guardo Sanremo ma leggo che la gente, in merito al suo monologo, è spaccata.

C’è chi era in platea, in piedi, e non la smette di applaudire; c’è chi da casa, lo guarda in differita, e lamenta un senso di cinismo che di solito si riserva ai malati. Li sento e li leggo che parlano di “bellezza del dolore” con vere e proprie divisioni di opinioni, tra chi si infuria al sol pensiero di unire due parole tanto lontane nel significato a chi vi ritrova invece una poetica di fondo. Mi decido e, tra i soliti commenti sul cachet e sui costumi, mi districo rapida per ascoltare direttamente e senza filtro le sue parole. Eccolo, lo riconosco: emozionato, parla di malattia – un tumore, il mieloma multiplo – però parla anche di speranza, la tipica e abusata parola da cui solo le grandi menti riescono a far fluire l’auteniticità della vita. Sarà questo che ha dato più fastidio.

La cura, la guarigione, i doni del Creato inaspettati e non più scontati. Si sa che è la paura della perdita più della perdita stessa a mettere in scena, scombussolare, cambiare le nostre più intime percezioni. Ecco che la speranza di poter essere ancora, nonostante e malgrado, diventa sinonimo di forza, ostinazione, la caparbietà di insistere per un respiro in più al di là di quanto ci è stato concesso. E poi, lo capisco, c’è la rabbia: il sentimento viscerale e indolente che più rimpicciolisce l’ego, quella filantropia prepotente che ci fa essere contenti e allo stesso tempo invidiosi. Quella, più che meschina è fragile, è la rabbia di chi resta: si occupano due spazi anziché uno, si fingono rappresaglie e dimenticanze e a chiunque ci ricordi che la malattia esiste, anzi è lì che esaspera il corpo e la mente, rispondiamo distogliendo lo sguardo. E’ più facile, ma il morbo, nel suo lungo devastare, lascia i segni su chiunque. Con buona pace della comunicazione mainstream che vorrebbe ad affontare la battaglia guerrieri ed eroine.

La bellezza di un dolore raccontato – in questo caso da Giovanni Allevi – mi sembra allora più simile a una controtendenza perché rimodula il tabù da un punto di vista personale. Il suo infatti non è un messaggio fine a sé stesso ma è, per dirlo con le parole di David Foster Wallace, il coraggio di chi decide di dimostrarsi debole. A mio avviso, è questo l’aspetto più bello, quello che può colpire chi non è preparato, l’accento che dimostra in modo genuino la volontà, la consapevolezza, la sospensione del giudizio, ciò che dalla prossemica sul palco arriva al pianoforte toccando ognuno di noi.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21