BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

EIAR 2024

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Era evidente, e anche normale, che questa volta Amadeus e Fiorello salutassero per l’ultima volta Sanremo. Ma adesso lo è ancora di più. Perché il presidente del Senato – il Senato della Repubblica Italiana, la nostra, la mia – ha con la sua brutale franchezza espresso un giudizio chiarissimo: Amadeus doveva fermare il cantante Ghali.
Ricapitolando: un cantante viene selezionato con tutti i passaggi che sappiamo per essere sul palco di Sanremo, presenta una canzone nota agli organizzatori e alla direzione artistica, quindi alla Rai, ma deve essere bloccato sul palco perché canta quella canzone e poi canta la cover di Toto Cotugno in parte in arabo e poi dice no ai genocidi e viva la pace.
L’amministratore delegato della Rai si scusa con l’ambasciatore di Israele impone la lettura del comunicato in tutti i programmi, almeno quelli di Rai 1. Ma non basta ancora. Un altro cantante, Dargen D’Amico, parlando del significato della sua canzone, il dramma dell’emigrazione, a Domenica In, viene bruscamente zittito da Mara Venier che poi, accidenti a questi fuori onda, dice pure che i giornalisti la vogliono rovinare.
Tutto questo avviene in Italia, Europa, anno di grazia 2024, nel servizio pubblico che noi, come ogni italiano che ha in casa l’energia elettrica, paga, magari non volentieri, ma paga.
Sottolineo che 100 anni fa l’Eiar arrivava gratuitamente nelle case (poche) che potevano permettersi la radio, diventando in pochi anni lo strumento principale di propaganda del regime fascista per la allora pionieristica intuizione di Galeazzo Ciano che di comunicazione se ne intendeva. Eiar e Minculpop.
La Rai di oggi, e in modo accentuato Rai 1 e TG1, è del tutto simile a quella Eiar, con la felice differenza di muoversi in un mercato libero che non a caso porta la 9 con Fabio Fazio a diventare ogni domenica la seconda o la terza rete nazionale e porta la 7 ad avere una quantità di spazi pubblicitari che quasi non se ne può più. Per non parlare del web.
Eppure questo doveva essere il festival della vendetta del governo di destra-destra. Ma non è bastato usare lo smacchiatore, evitare monologhi, avere ospiti che dovevano essere innocui, non rischiare nemmeno un balletto meno conosciuto del Bolero di Ravel, per dire. Non è bastato. Perché quelli sul palco erano per la stragrande maggioranza dei professionisti. Gente che non si sa come la pensi politicamente ma che ha il mestiere in mano,le qualità giuste, i tempi giusti. E che, come la stragrande maggioranza degli italiani, una parte dei quali non vota più, ritiene normale difendere diritti normali di gente normale in un paese che dovrebbe essere normale.
E quindi si parla di morti sul lavoro, sciaguratamente sempre in crescita, poi si canta perfino “c’era un ragazzo”, si ragiona, almeno un po’, di crisi del clima, si canta del dramma di chi è costretto a lasciare le proprie terre rischiando la vita, non ci sono segni di omofobia, e tutti inneggiano alla pace. Stupisce che il ricordo della tragedia delle foibe non menzioni la parola “comunista”.
E infatti il governo di questo festival è molto insoddisfatto. E la partita sulla Rai sarà virulenta, durissima. E l’opposizione, giorno dopo giorno, capirà, almeno speriamo, che non è tempo di piccoli inciuci di bottega ma di contrapposizione a viso aperto con questa Rai di regime, non semplicemente lottizzata ma occupata militarmente. E i colleghi che ripetono ancora “è sempre stato così” non si rendono conto che questo livello di censura e di bavagli non è stato raggiunto neppure sotto i governi Berlusconi.
E poi la destra è scontenta di Sanremo per un altro motivo. E accentua il modello Eiar 2024 fino all’estremo.
Lo dico con le parole, riprese integralmente, di uno storico della TV che insegna alla Cattolica di Milano, il moderato e attentissimo professore Giorgio Simonelli: “tutto sta nella cosiddetta questione dell’egemonia: la forza, la profondità dei valori e dei temi del pensiero progressista,e la bellezza della loro espressione artistica non possono essere scalfite da un semplice cambio di colore politico dei dirigenti del servizio pubblico”.


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