Alla commemorazione in memoria dei tre inviati Rai, Luchetta, D’Angelo e Ota uccisi trent’anni fa a Mostar est, Andrea, figlio di Marco, ha parlato di “sofferenza che non cancella le responsabilità”. E ha chiesto alle autorità di opporsi “a chi ha bisogno dell’odio per difendere il suo potere” e tiene la città ancora sotto scacco.
Il 30 gennaio sono stata a Mostar, con la numerosa delegazione partita da Trieste, alla commemorazione organizzata dall’Ambasciata d’Italia a Sarajevo. Ho voluto tornare in punta di piedi in quel cortile dove il 28 gennaio 1994 tre inviati Rai della sede di Trieste – Marco Luchetta, Dario D’Angelo e Alessandro Saša Ota – sono stati uccisi dai cannoni dell’HVO (esercito croato-bosniaco) che tenevano Mostar est sotto assedio.
Mostar è per me, ancora oggi, il silenzio attonito che mi ha investita alcuni mesi dopo la loro uccisione, quando ho camminato per la prima volta tra le macerie della parte est assieme a volontari del vasto movimento di solidarietà italiano. E Mostar è per me ancora la sofferenza, mista a testarda resistenza, letta negli occhi e nelle parole delle persone allora incontrate, con le quali sono nate amicizie che il tempo non ha scalfito.
Per cui, oggi ho deciso di non scrivere di questa città ancora ingabbiata in un passato che non passa e dalla quale si continua a scappare: non per salvarsi dalle bombe ma per il diritto ad una vita degna, per fuggire dalla mancanza di prospettive, da uno spazio socialmente e politicamente divisivo. Per allontanarsi da una guerra che prosegue con altri mezzi e i cui segni sono ancora incisi nel discorso pubblico, nei media, nella politica. Nei muri delle case.
Scrivo per dare voce ai parenti dei tre inviati, venuti a Mostar per ricordarli (Daniela, Andrea e Anna – rispettivamente moglie, figlio e sorella di Luchetta – e Milenka moglie di Ota), attraverso le parole pronunciate da Andrea, figlio di Marco Luchetta. Aggiungere altro al suo discorso, intimo e al contempo politico (che ha rivolto anche alle autorità presenti, tra cui il sindaco della Città Mario Kordić) sarebbe superfluo.
L’Ambasciatore Marco Di Ruzza, dopo aver ricordato tutti gli italiani che hanno perso la vita in Bosnia Erzegovina durante il conflitto ha invitato a prendere ispirazione dal loro impegno civile: “Il loro sacrificio deve essere una bussola per tutti coloro che si adoperano per promuovere reali processi di riconciliazione in Bosnia Erzegovina, affinché il Paese possa finalmente evolvere in una moderna società aperta, cosmopolita, democratica, multiculturale, lontana dagli odi etnici e dai ciechi nazionalismi che hanno insanguinato questa terra. Una società che possa guardare con fiducia e determinazione al suo percorso europeo” .
Ad alcuni, tra i tanti italiani e mostarini presenti, voglio però dare un volto preciso: gli alunni quattordicenni dell’ottava classe della scuola dell’obbligo “Mustafa Ejubović-Šejh Jujo”, rimasti in piedi quasi due ore al freddo e in composto silenzio. “Come mai avete deciso di venire?”, chiedo al loro insegnante. Risponde, quasi sorpreso della domanda, che è importante far sapere cosa è accaduto, ed esserci per partecipare al cordoglio.
Ma anche per tenere viva la memoria di persone, venute da lontano, che hanno rischiato la vita per raccontare al mondo la storia di bambini vittime di una guerra assurda che ha tolto loro il diritto di vivere, insieme e in pace.
Parliamo, racconto loro della Fondazione nata a Trieste nata poco dopo quel 28 gennaio 1994, grazie alla quale sono stati curati 850 bambini, tra cui molte vittime di quella guerra e di altre parti disastrate del mondo. Racconto che Andrea, quel giorno, aveva solo 7 anni, e che oggi è giornalista Rai com’era stato suo padre.