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Coltellate a scuola, vittime e narrazioni

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Coltelli. Ne sono volati tanti, anche nella storia. E spesso per i motivi più incredibili a raccontarsi. Nel 2018, per esempio, colpisce leggere quello che sembra uno scherzo e invece viene considerato il primo tentato omicidio nella storia dell’Antartide: uno scienziato russo accoltellato al petto da un collega perché quest’ultimo gli rivelava sempre la fine dei libri gialli che appassionavano entrambi. La vittima aveva il vizio di spoilerare, infatti. Così uno è stato incriminato per tentato omicidio e l’altro ha quasi perso la vita perché lo spoilering è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il più delle volte è questo che fa volare coltelli. Per qualcun altro esagera. Cesare nel 44 a.C. ricevette 23 coltellate perché agli occhi dei cesaricidi aveva esagerato e voleva farsi re. Per questo, arrivato nella Curia di Pompeo, si ritrovò Cimbro ai piedi, che gli tirava la toga. Ed era questo il segnale convenuto perché i congiurati lo circondassero e iniziassero a colpirlo. Pure Marco Bruto, figlio della su amante storica Servilia, al quale Cesare avrebbe detto però “ kai su teknon, anche tu, figlio”, e non “tu quoque Brute fili mi”, perché era il greco la lingua dell’élite cui apparteneva. Ucciso da fendenti anche ai genitali, il corpo di Cesare rimase ore nella Curia, finché tre schiavi non lo portarono via in lettiga. E oggi quando si racconta questo episodio di solito si insiste su cosa? Sul fatto che Cesare si difese. Sarebbe stato anzi abilissimo a difendersi. Per causa sua, la vittima designata, Bruto sarebbe stato ferito a una mano. E poi Cesare si era recato in largo Argentina, dove oggi si trova una fermata di mezzi pubblici, senza scorta, e nonostante i presagi avversi e i tentativi di avvertirlo di uno schiavo, del maestro Artemidoro e dell’aruspice Spurinna. Insomma, spesso quando si tratta di coltelli sembra quasi che uno se li vada a cercare e se li debba aspettare. Mi interessa questo in questi giorni dei coltelli. La narrazione. Penso alla professoressa di Varese colpita qualche giorno fa da tre fendenti alla schiena da un suo alunno di 17 anni. Che forse voleva vendicarsi perché l’insegnante si era pronunciata per la sua bocciatura (ma poi lui non è stato nemmeno bocciato, perché la madre, come avviene molto spesso in questi ultimi tempi di coltelli, ha fatto e vinto il ricorso). E come sempre si parla di disturbi che il ragazzo avrebbe fin dall’infanzia. E di una famiglia dalla faticosa quotidianità. Finché la narrazione non prosegue nel modo che non piace a me, e cioè arrivando a dire che tre fendenti certo lascerebbero intravedere la volontà di uccidere. Ma alla fine “ resta vero che prima della quarta coltellata il
17enne, un italiano, si è fermato”. E ha soltanto abbozzato una fuga. E andava a scuola in una realtà nota per la complessità della popolazione studentesca e all’interno della quale ora verranno verificate eventuali omissioni. Perché ci si fa sempre le domande sbagliate a vedere, quando volano coltelli. Si cercano a scuola responsabilità che invece andrebbero riconosciute nel rapporto malato tra famiglia e società, che non fanno che peggiorarsi a vicenda. Si cercano risposte senza voler vedere come stanno realmente le cose e si procede
con l’ingenuità e lo spirito naif con cui nell’antichità si indagò (lo fece Aristotele, addirittura) sulla morte violenta di Filippo II, padre di Alessandro Magno. Ucciso da un ufficiale delle sue guardie del corpo, Pausania, forse per gelosia perché i due erano amanti. O forse perché il sovrano macedone aveva troppa influenza su un potente santuario greco. O forse perché aveva offeso il figlio Alessandro. La madre di lui Olimpiade. E’ importante farsi le domande giuste ogni volta, quando si cercano responsabilità. Ed è importante la narrazione. E forse la domanda più inutile di tutte ma umanamente bella, capace di impostare il racconto in maniera diversa, è proprio quella della nostra professoressa di Varese. Che appena si è svegliata in ospedale ha chiesto come stesse il ragazzo.


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