Era il 1971 quando prima il New York Times e poi il Washington Post pubblicarono i cosiddetti “Pentagon Papers”, documenti riservati di settemila pagine del Dipartimento della Difesa americano che rivelarono gli orrori compiuti dagli Stati Uniti in Vietnam fra il ’45 e il ’67. Lo studio venne commissionato, nel ’67, da Robert McNamara, all’epoca segretario di Stato, e l’esito venne reso noto da Daniel Ellsberg (membro della RAND Corporation, una società specializzata in analisi delle politiche pubbliche), il quale, dopo aver copiato la documentazione così ottenuta, la passò alla stampa, ritenendo il contenuto dell’indagine di interesse nazionale.
Nixon fece di tutto per impedirne la pubblicazione, ricevendo da Hugo Black, giudice della Corte Suprema americana che in gioventù aveva professato idee conservatrici, la seguente risposta: “Soltanto una stampa libera e senza limitazioni può svelare efficacemente l’inganno nel governo. E di primaria importanza tra le responsabilità di una stampa libera è il dovere di impedire a qualsiasi parte del governo di ingannare le persone e di inviarle all’estero in terre lontane, a morire di febbri straniere e sotto le bombe ed il tiro nemico”.
Nello stesso periodo, sempre Nixon protagonista, due giovani giornalisti del Washington Post, Bob Woodward e Carl Bernstein, cominciarono a pubblicare le prove dello spionaggio condotto dal Presidente in carica a danno dei democratici (lo scandalo Watergate), costringendolo, nell’agosto del ’74, alle dimissioni per manifesta indegnità.
Editrice del Washington Post, all’epoca, era Katharine Graham, un punto di riferimento per chiunque creda nella libertà d’espressione, come testimonia anche la splendida interpretazione cinematografica che ne ha fornito Meryl Streep in “The Post”. Senza dimenticare “Tutti gli uomini del presidente” di Alan J. Pakula, con Dustin Hoffman e Robert Redford nei panni dei due cronisti, premiati come meritavano e da oltre mezzo secolo considerati dei maestri della professione e dei difensori della democrazia.
Se abbiamo raccontato queste vicende lontane oltre cinquant’anni, è per venire alla stretta attualità e, in particolare, a un giornalista di nome Julian Assange, che per aver fatto le stesse cose in epoca contemporanea rischia la condanna a centosettantacinque anni di carcere negli Stati Uniti, dopo averne scontati già quasi cinque nel penitenziario di massima sicurezza di Belmarsh, definito “la Guantánamo inglese”. E allora vorremmo scrivere una lettera a questo presunto Occidente per porgli due semplici domande: cosa siamo diventati? Siamo ancora la culla dei diritti o siamo ormai altro? Perché nessuno di noi nega che Putin sia un despota e Xi Jinping un personaggio diversamente democratico né chiudiamo gli occhi di fronte ad alcuna persecuzione: che si tratti di Anna Politkovskaja, di Aleksej Naval’nyj, di Liu Xiaobo, delle donne iraniane in lotta contro il regime degli ayatollah e di chiunque altro, ovunque nel mondo, si batta contro le aberrazioni di questa stagione disumana. Ma tu, Occidente, cosa vuoi essere? Perché Bolzaneto, Guantánamo, Abu Ghraib e il caso Assange, in questa parte del mondo, sono ancora più gravi che altrove. Altrove, infatti, non hanno mai preteso di essere un esempio di democrazia, al punto di arrivare ad “esportarla”; noi sì, talvolta persino a ragione, ma oggi siamo irriconoscibili. E allora non possiamo che affermare che la vicenda di Assange sia ancora più grave di quella di Naval’nyj perché fin da quando eravamo bambini ci è stato insegnato che siamo altro, perché nelle nostre costituzioni c’è scritto che la stampa è libera e perché ci riteniamo figli legittimi delle rivoluzioni americana e francese, i due punti di svolta dell’era moderna. Se siamo diventati altro, diciamocelo con franchezza. L’importante, una volta gettata la maschera, è accantonare l’ipocrisia.
A noi piace immaginare che non sia così, ci ostiniamo a sperarlo, e per questo ci aggrappiamo a una riflessione che costituisce la nostra ragione di esistere: “Il vero giornalismo rimane una scoperta continua, un esercizio e un’avventura intellettuale. Ed è per questo che si può fare solo se si è indipendenti”. Firmato: Abe Rosenthal, storico direttore del New York Times.
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